Il nostro Direttore interviene sulla ‘Giornata della Memoria’: per far sì che la storia non si ripeta

Nel mese di gennaio 2019 il nostro Direttore Franco Falco fu invitato dalla Prof.ssa Giovanna Mugione, Dirigente Scolastico dell’Istituto Superiore “Guglielmo Marconi” di Giugliano in Campania (NA), ad esporre agli studenti il significato della Giornata della Memoria: il 27 gennaio del 1945 si aprirono i cancelli di Auschwitz (già OSWIECIM), monumento contro l’orrore nazista. I primi deportati iniziarono ad arrivare già nel 1940 e giunti a destinazione, sotto gli occhi del “personale medico” delle Schutztaffl – SS (squadre di protezione/salvaguardia – organizzazione paramilitare della Germania nazista – attive dal 4 aprile 1925 all’8 maggio 1945), avveniva la prima selezione: mediamente il 25% dei deportati era dichiarato abile al lavoro, il restante 75% (donne, bambini, anziani, madri con figli) era condannato a morte. I pochi prigionieri dichiarati abili al lavoro venivano invece spogliati, rasati e rivestiti di una casacca, un paio di pantaloni e un paio di zoccoli e sul loro avambraccio sinistro era tatuato un numero associato ad un contrassegno colorato che identificava le diverse categorie di detenuti: ebrei, rom, sinti, testimoni di Geova, asociali, omosessuali, criminali e prigionieri politici. Il loro compito, da quel momento in poi, era lavorare per numerose ditte tedesche – tra cui la Siemens, la I. G. Farben (che produceva lo Zyklon B, il gas usato per lo sterminio) – o nelle cave, nell’agricoltura e nelle ditte legate all’industria bellica. Alcuni internati infine furono costretti a fare da manovalanza, senza avere ruoli decisionali: Jozef Paczynski diventò il barbiere personale di Rudolph Höss, Lale Sokulov fu scelto per diventare il tatuatore ufficiale di Auschwitz e Wilhelm Brasse, un internato polacco, fu arrestato perché renitente all’arruolamento nella Wehrmacht e fu “promosso” a fotografo dei detenuti. Quest’ultimo prima di lasciare Auschwitz nascose le sue pellicole che nel 1945 finirono in mano agli uomini dell’Armata Rossa. Il 27 gennaio 1945 il campo fu liberato con circa 7.000 prigionieri ancora in vita.
Il 27 gennaio 2007 Franco ebbe anche il piacere di esporre le dichiarazioni estrapolate dal suo incontro con la Signora Alberta Levi Temin (Guastalla, RE 1919 – Napoli il 31.8.2016) che, con garbo gli descrisse i suoi ricordi: «Voglio iniziare ricordando le leggi razziali, emanate in Italia nel 1938. Queste leggi proibirono a tutti gli Ebrei di andare a scuola; gli uomini e le donne non potevano più lavorare in impieghi pubblici o privati. Io allora avevo 19 anni e sarei dovuta andare all’università, ma per via di quelle leggi non ho potuto continuare i miei studi. Fortunatamente, avendo il diploma di maestra, ho potuto insegnare nelle scuole ebraiche così da aiutare i nostri ragazzi a non rimanere ignoranti. In quel tempo io mi trovavo a Ferrara, dove gli Ebrei erano circa 1000, in una cittadina che contava 60.000 abitanti. Ricordo che alla fine dell’anno scolastico 1938-39 fu permesso ai bambini ebrei di andare a sostenere gli esami nelle scuole pubbliche. Ma dovevano entrare mezz’ora prima degli altri e uscire mezz’ora dopo gli altri; per andare in bagno dovevano essere accompagnati da un bidello, per evitare il contatto con gli altri bambini. Anche l’esame di maturità di terza liceo non veniva fatto insieme agli altri. Si potevano vedere tre, quattro, cinque ragazzi messi in un’aula a parte, divisi dagli altri, in quella stessa scuola dove qualche anno prima stavano tutti insieme seduti nello stesso banco. Quando nel 1940 l’Italia è entrata in guerra, la vita per la gente della mia razza è diventata ancora più difficile: cominciavano a comparire le scritte, sui muri e all’ingresso dei negozi, contro gli Ebrei. Ricordo che un giorno, mentre andavo alla scuola ebraica, passando davanti ad una sala del cinema dove tante volte ero andata a vedere i film, vidi un cartello con la scritta: “non sono desiderati né gli zingari né i cani né gli Ebrei”. Capite? Gli Ebrei venivano dopo i cani! Sui muri si vedevano tante scritte contro gli Ebrei: “abbasso gli Ebrei, fuori gli Ebrei dall’Italia, morte agli Ebrei”. Era veramente una cosa che ci faceva molto male. Si giunse, così, all’8 settembre del 1943, quando l’Italia firmò l’armistizio con gli Alleati. Il Re, Vittorio Emanuele III, di fronte alla catastrofe, preferì imbarcarsi su una nave e andar via, lasciando la nazione in balia degli eventi. I nazisti avevano occupato l’Italia. Nessuno sapeva cosa fare. L’Italia era allo sfascio. lo mi trovavo a Ferrara e avevo tanta paura: capivo che dovevamo nasconderci. Ricordo che un prete ci aveva detto: “quando vengono i nazisti, voi giovani scappate, perché correte un grande pericolo”. […] Poi ci fu una cosa imprevista, alcuni soldati chiesero: “Se fra voi ci sono dei cattolici di matrimonio misto, passino nell’altra stanza”. La legge italiana, a differenza di quella tedesca, affermava che bastava avere un genitore cattolico e aver ricevuto il battesimo prima della emanazione delle leggi razziali per essere considerati cattolici. In Germania era diverso: bastava che uno solo dei quattro nonni fosse ebreo per essere considerati ebrei, anche se da due generazioni erano battezzati. Durante il rastrellamento vennero prelevate 1.230 persone delle quali 207 vennero liberate e 1.023, rimanendo in mano dei tedeschi, vennero spedite ad Auschwitz”[…].»
Franco in quell’occasione di incontro con i giovani ha voluto ricordare che oggi possiamo vivere in uno stato democratico e libero che ha garantito la pace, per oltre settanta anni, grazie alla nostra Costituzione e che abbiamo la possibilità di creare il nostro futuro e quello di molti altri con le azioni e le scelte, politiche e culturali, di oggi. Chiudo citando un suo pensiero: “Quello che è accaduto non può essere cancellato ma possiamo impedire di ripeterlo”.
Bibliog.:
Franco Falco e Autori vari, Chi è? Volume dodicesimo, pp.149-154. (sez. Narrativa).

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