Ungaretti, la voce della speranza e il segreto della poesia

“In un’epoca in cui noi tutti ci lamentiamo ogni giorno dell’invadenza del materialismo, della prepotenza di questo materialismo che, sembra voglia corrodere, travolgere l’umanità; ci fu un momento in cui un grande editore (Mondadori) disse: le poesie di Ungaretti le dobbiamo stampare tutte a qualunque prezzo. Ci fu un momento in cui Ungaretti si presentò all’Università di Roma e accolse tutta la città; la sala gremita, gli studenti nei corridoi, tutti in ascolto”. Così Ettore Della Giovanna, giornalista italiano e segretario fino al 1942 della casa editrice Arnoldo Mondadori, introduceva nella sua rubrica, in onda sulla Rai nel 1961, Giuseppe Ungaretti. “La mia vita è stata dura, ho fatto il poeta nei miei ritagli di tempo, ho fatto il giornalista per lunghi anni, il professore, altro nobile mestiere”, afferma Ungà, come lo soprannominava il suo grande amore, il suo “sogno”, la sua “luce lontana”, Bruna Bianco. Nasce ad Alessandria d’Egitto l’8 febbraio 1888, dove i genitori, entrambi lucchesi, si erano trasferiti; suo padre lavorava alla costruzione del canale di Suez, prima di morire nel 1890 per un incidente. Il poeta frequenta l’École Suisse Jacot e proprio tra i banchi di scuola scopre la passione per la letteratura. Nel 1912 si stabilisce in Francia per studiare alla Sorbonne. “Com’è nata la poesia in me? Un qualcosa che non so spiegare, probabilmente in un caffè parigino dove ci si riuniva tutti i martedì intorno a Paul Fort, principe dei poeti e drammaturgo francese. Parigi era carica di gente, di poeti veri o falsi. Lì incontrai Marinetti, Palazzeschi, Soffici, in occasione della fondazione de Les Soirées de Paris, ad opera di Apollinaire”. Nel 1915 pubblica le sue prime poesie sulla rivista “Lacerba” e successivamente si arruola volontario in fanteria a seguito dello scoppio della Grande Guerra, combattendo sul Carso e sul fronte francese. Influenzato dalle Avanguardie, Ungaretti disgrega il verso, impoverisce la forma del metro privandolo della punteggiatura e dona risonanza alle singole parole. In trincea scrive “lettere piene d’amore”, rapide, fulminanti, con una tensione all’espressionismo. “È il mio cuore/ il paese più straziato” scrive in San Martino del Carso, o in Veglia “Non sono mai stato/ tanto/ attaccato alla vita”. Le poesie faranno parte de Il porto sepolto datato 1915, che rappresenta il suo manifesto programmatico, in richiamo al porto di Alessandria. “I poeti che mi attrassero subito sono due: Leopardi e Mallarmé, quest’ultimo conosciuto quando ero scolaro e mi battevo con i miei compagni che lo consideravano un poeta oscuro, come lo è difatti. Non lo capivo neanche io, ma c’era qualcosa che mi attraeva, in quella poesia intensa c’era un segreto. La poesia è poesia quando porta in sé un segreto. Se la poesia è decifrabile, nel modo più elementare non è più poesia. Leopardi aveva capito bene come celare questo segreto. Nella Primavera, in modo particolare, il Leopardi ha esercitato la sua eleganza, attraverso l’utilizzo del termine “antiche” che cela un doppio significato: il senso della durata, dal tempo antico in cui l’uomo era vicino alla natura, al nostro tempo isterilito all’intelligenza”. Nel 1919 pubblica Allegria di naufragi, in richiamo al “naufragar” leopardiano, e nel 1931 pubblica l’Allegria, titolo definitivo che raccoglie le poesie delle prime edizioni.
Ungaretti viaggia molto e con lui cresce il desiderio di “canoscenza”. È inviato all’estero da “La Gazzetta del Popolo” e riceve la cattedra di Letteratura Italiana presso l’Università di San Paolo. Nel 1942 insegna letteratura italiana contemporanea all’Università di Roma. “Il contatto con i giovani è una delle esperienze più vere che un uomo e poeta possa fare, l’umanità si conosce meglio nei giovani, sinceri, autentici; i giovani non hanno ancora provato la vita e vi si abbandonano, si scoprono”. Il climax delle perdite subite lo sconvolge: orfano da piccolo di padre, la morte della madre nel 1930, del fratello Costantino nel 1937 e del figlio Antonietto a soli nove anni, a cui scrive la tenera e struggente poesia Giorno per giorno, porterà alla creazione della raccolta Il Dolore, del 1947, permeato dai lutti e la truce realtà della guerra. “Il Dolore è il libro che più amo, il libro che ho scritto negli anni orribili, stretto alla gola. […] Quel dolore non finirà mai di straziarmi”. Dalla raccolta si eleva un grido che sembra richiamare L’urlo di Munch: “Cessate di uccidere i morti,/ non gridate più, non gridate/ se li volete ancora udire”. Le poesie di Ungaretti figurano nel volume Vita di un uomo del 1969, autobiografia poetica. In occasione degli ottant’anni riceve gli onori del governo italiano a Palazzo Chigi, dove rivolgendosi ai presenti asserisce “sono grato a tutti, molto grato; sono vecchio ho ottant’anni, ma io non dico mai di avere ottant’anni, dico che ho quattro volte vent’anni e questo è il mio quarto ventennio, evviva la Poesia”.
Che si voglia ricordare Ungaretti come il poeta della speranza, degli affetti, della dolcezza, della vita come arte della confessione biografica. Egli in uno stralcio della trasmissione “Incontro con un poeta del 1967”, accogliendo a sé la nipotina durante l’intervista afferma: “gli affetti vogliono dire una cosa che c’è sempre stata tra gli uomini, insomma, gli uomini se riescono a migliorare è perché amano”.

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