Il ritratto di Dorian Gray, disincanto della bellezza ai giorni nostri

Nell’era dei filtri di Instagram, Photoshop e altre App che distorcono la nostra vera immagine, è facile perdere la percezione di noi stessi.
Sarà capitato a tutti almeno una volta nel corso della vita, di osservare la propria immagine riflessa allo specchio e non piacersi, oppure guardare una foto e pensare:
“Che tristezza! Diventerò vecchio, orribile e terribile. Invece questo ritratto sarà sempre giovane non sarà mai vecchio. Se solo fosse vero il contrario! Se fossi io ad essere sempre giovane mentre il quadro invecchia! Per quello, per quello darei tutto! Sì, non c’è nulla nel complesso mondo che non darei! Darei la mia anima per quello!”
Parole quelle di Oscar Wilde ancora tristemente attuali, la “vita estetica” che nel XXI secolo continuiamo a condurre non è forse così dissimile dal concetto di “bellezza” dello scrittore, aforista, poeta e drammaturgo irlandese dell’età vittoriana, esponente del decadentismo e dell’estetismo britannici, dandy per eccellenza, eccentrico, calzoni al ginocchio, calze di seta nera, un cappotto di velluto, una strana cravatta e strani fiori all’occhiello; lo si poteva anche vedere occasionalmente camminare su e giù per Piccadilly Circus con un girasole in mano.
Alla fine del mese di marzo nel 1890, nasceva Il ritratto di Dorian Gray, di cui Wilde inviò il dattiloscritto ai redattori della rivista Lippincott’s Monthly Magazine. Il romanzo fu pubblicato epurato di alcuni passi ritenuti licenziosi nel luglio dello stesso anno, ma all’inizio del 1891 l’autore pubblicò su The Fortnightly Review una prefazione al romanzo (“A Preface to The Picture of Dorian Gray”) per esporre il proprio manifesto programmatico. “Art for art’s sake”, questo il credo fondamentale del romanzo e della concezione artistica di Wilde, l’arte non sempre necessita di una funzione educativa, è piuttosto, così come la bellezza che previene la morte dell’anima, fonte di consolazione per l’uomo. La trama de Il ritratto di Dorian Gray gira intorno alla realizzazione di un dipinto realizzato dal pittore Basil Hallward, ritraente Dorian, un giovane nel fiore dei suoi anni, che verrà condotto sulla via dell’estetismo da Henry Wotton, uomo dedito alla ricerca della bellezza e del piacere. Un monito, un carpe diem di oraziana memoria risuonerà per sempre nella mente di Dorian, l’acino d’uva appassito della canestra del Caravaggio lo intimorirebbe, addirittura Dorian dichiara che darebbe la sua stessa anima pur di far sì che il ritratto invecchiasse al posto suo. La continua perdita di interessi una volta che egli raggiunge i suoi obiettivi effimeri, come l’amore per l’attrice Sybil che lo attrae solo per il ruolo scenico che interpreta e non per il suo reale modo di essere, conduce Dorian in un climax di desolazione e apparenza, tra lui e la società si crea una barriera, un “profilo social” da tenere costantemente aggiornato e per cui mostrare sempre la parte migliore di sè, attraverso la pubblicazione di “stories”, nient’altro che partecipazioni a balli e cerimonie dell’alta società. Ma cosa accade quando “l’idolo” creato decade e ci si trova a fare i conti con il proprio “io”? Dorian a causa della sua immagine costantemente giovane viene rifiutato dalla società, se solo avesse saputo dell’esistenza dei “filtri giovinezza” si sarebbe difeso dalle accuse diversamente, ma ad invecchiare al posto suo vi era il ritratto fatto da Basil, ormai marcio a causa dei misfatti e del rifiuto della propria identità.
Oscar Wilde, a dispetto dell’assenza, secondo molti, di una morale nei suoi romanzi, ci ha fornito una lezione importantissima: la società fa sì che ognuno di noi crei un “doppio”, un alter ego per cui mostrarsi sempre perfetti, ma a lungo andare c’è il rischio che ognuno di noi perda la propria identità. Dorian alla fine del racconto distrugge il quadro, lo squarcia, non si riconosce più nell’immagine che ha creato. “Oggi la gente conosce il prezzo di tutto e il valore di nulla” scrive nel romanzo Wilde, comprendiamo il valore di noi stessi.

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