Riflessioni sugli aspetti fisiologici della dipendenza

Il filosofo d’Oltralpe René Descartes (Cartesio) nacque il 31 marzo 1596 ed è ritornato alla Casa del Padre dalla “Venezia del nord” del Regno di Svezia l’11 febbraio 1650. La sua ultima dissertazione letteraria fu “Le passioni dell’anima”, nata inizialmente per l’Elettrice Palatina e Regina consorte di Boemia Elisabetta Stuart, moglie del Re Federico V di Wittelsbach-Simmern. L’opera ha una duplice suddivisione che vede nella prima parte un esame sulla struttura fisica del corpo e un’indagine sulle funzioni della mente, la quale si mette in rapporto con il πάθος, con quel “pàthos” tipico dell’essere umano. La monografia continua con i moti dell’anima, con gli impulsi dell’essere inestricabili, indomiti ed imprescindibili. La “res cogitans” e la “res extensa” rappresentano la duplice suddivisione cartesiana della realtà: la prima è la realtà psichica, “inestensione, libertà e consapevolezza” (https://it.wikipedia.org/wiki/Res_cogitans_e_res_extensa), mentre la seconda è la realtà fisica “estesa, limitata e inconsapevole” (Ibidem), e i due domini comunicano attraverso la ghiandola endocrina dell’epifisi. Quando l’essere umano viene colpito da malattia, il suo corpo è essenza ed entità verso il quale gli specialisti e gli esperti del settore assumono un rigore sistematico e razionale: inoltre il soggetto infermo punta il dito su uno stato di sofferenza precipuo, “contenuto” in certi limiti.
È largamente dimostrato che quando il corpo si ammala, le disfunzioni fisiche intaccano il tono dell’umore con alterazioni significative trasversali e longitudinali, e talvolta, nei casi più gravi, si arriva alla “Weltanschauung” (http://www.treccani.it/enciclopedia/weltanschauung_(Dizionario-di-filosofia)/), una trasmutazione esistenziale, una concezione del mondo che porta a trasformare il proprio “modus vivendi”. Quindi possiamo affermare che esiste un’armonia corpo-mente, come sostiene il filosofo francese Maurice Merleau-Ponty (https://it.wikipedia.org/wiki/Maurice_Merleau-Ponty): il corpo “non è solamente una cosa, un potenziale oggetto di studio della scienza, ma è anche la condizione necessaria dell’esperienza: il corpo costituisce l’apertura percettiva al mondo” (Ibidem). Quindi la nuova scuola di pensiero terapeutico deve tener conto dell’osmotica dipendenza tra corpo e mente, deve essere in sintonia interiore con la dimensione psichica del soggetto, non tanto in considerazione di fattori etici o morali, pur necessari nella relazione terapeutica, ma per il profondo connubio tra salute mentale e salute fisica. Essenziale è la raccolta delle informazioni fisiologiche e disfunzionali, ma nel contempo è necessaria la conoscenza dei sistemi rappresentazionali del soggetto e i suoi rapporti con le emozioni. La relazione terapeutica è un processo educativo: “educare”, da “educĕre”, vuol dire “trarre fuori” (http://www.treccani.it/vocabolario/educare/), mediante quella “Pedagogia del corpo” (http://www.pedagogiadelcorpo.it/) di gamelliana memoria. Qualunque deterioramento di una disfunzione organica ha come conseguenza una profonda trasformazione dello stato d’animo del soggetto, una metamorfosi dei tratti emotivi e della condizione dello spirito: dunque le patologie dell’organismo sono interconnesse con le emozioni. Lo psicoanalista inglese Donald Woods Winnicott, nativo di Plymouth della Contea del Devon, coniò il lemma “psiche-soma”, e un bell’articolo della psichiatra Ersilia Cassani ne spiega con chiarezza la teoria dello sviluppo (https://www.spiweb.it/spipedia/psiche-soma/). Winnicott definisce anche il concetto di “vero sé” e di “falso sé”: il primo indica il profondo, la subcoscienza intima, mentre il secondo la razionalità, il conscio, la consapevolezza. Il pediatra del Regno Unito “suggerisce all’analista di accostarsi ai bisogni non pensati del paziente con lo psiche-soma e non con la conoscenza intellettuale delle teorie […]. Egli pone dunque l’accento sulla necessità che l’analista condivida l’esperienza somatica ed emotiva come primo passo verso l’evoluzione della pensabilità” (Ibidem). La terapia, dunque, diventa relazione emozionale, un’alleanza empatica che vede coinvolti in una dicotomia bilanciata corpo e psiche considerati come un inestricabile tutt’uno. Importanti i trascorsi del soggetto: i saperi formali e antropologici del paziente rappresentano il fulcro della cosiddetta “relazione terapeutica” (https://www.stateofmind.it/tag/relazione-terapeutica/), attraverso la quale il giudizio clinico dell’operatore sanitario è più attento e maggiormente elaborato. “To cure” e “to care”, questo l’imperativo terapeutico moderno, cioè unire le caratteristiche fenotipiche del paziente alle sue peculiarità dell’esperienze del sé, curare e prendersi cura dell’unità psicofisica, la terapia medica per il corpo e, contemporaneamente, cura dell’anima e del sé: il paziente deve essere visto come l’insieme di tutti i suoi parametri vitali della sfera fisiologica e dell’area delle facoltà percettive.
In questo modo, oltre che sui limiti e sulle mende umane, lo psicoterapeuta deve lavorare sulle virtualità latenti e sulle condizioni embrionali e in nuce del soggetto, facendo effluire con l’accezione antica di “ex-ducere” le potenzialità del paziente.

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