Figli di un dio minore. Ragazze e ragazzi degli istituti professionali e tecnici italiani

Puntuale come ogni anno, la relazione del Ministero dell’Istruzione sui dati delle iscrizioni alle scuole pubbliche del Paese sembra confermare la tendenza oramai in atto da anni. Le famiglie e gli studenti italiani preferiscono i licei. Secondo le statistiche apparse alla fine di gennaio sul sito del Dicastero di Viale Trastevere, il 57,8% degli iscritti predilige i licei; seguono poi i tecnici con il 30,3%; infine i professionali si attestano all’11,9%.
Se i numeri fotografano una situazione concreta ed eterogenea, non raccontano d’altra parte l’elemento culturale che ne è alla base. Per effetto di un’eredità che grava sull’Italia sin dagli inizi del Novecento e in particolar modo dalla riforma varata nel 1923 dall’allora Ministro Giovanni Gentile, l’istruzione secondaria di secondo grado si suddivide in due categorie: una migliore, l’altra peggiore. Si pensa ai licei, soprattutto il classico e lo scientifico, come a scuole riservate ad alunni volenterosi, studiosi e di grandi capacità cognitive. Insomma, a scuole d’élite. Sono inoltre identificate come istituti non settorializzati, che consentono cioè a chi le frequenta di poter intraprendere un qualunque percorso universitario, dall’umanistico allo scientifico, e lavorativo.
Di contro, i tecnici e i professionali accolgono – non solo per la riforma gentiliana ma pure per una convinzione fortemente radicata nella società contemporanea – studenti a cui l’università non importa, poco attenti e indisciplinati, con storie ed esperienze personali difficili, poco o per nulla interessati allo studio se non di quelle materie che possano garantire qualche opportunità lavorativa immediata.
Non si tratta di considerazioni e riflessioni soggettive, bensì di osservazioni che hanno un loro riscontro obiettivo. Che gli istituti tecnici e professionali siano reputati di categoria inferiore rispetto ai licei emerge ad esempio dalle programmazioni disciplinari e, ancor di più, dall’adozione dei libri di testo. Certamente, ogni insegnante di materie letterarie sa che esistono, perché li adotta, manuali differenti per i licei e i tecnico-professionali. Per i primi, i contenuti sono approfonditi ed elaborati a fondo, laddove per gli altri gli argomenti risultano semplificati e ridotti. E tale strategia editoriale non è forse figlia di quell’eredità gentiliana che tutti si sforzano di nascondere ma che pervade in realtà profondamente il modus operandi di insegnanti, famiglie e studenti? In ognuna di queste categorie è persistente infatti l’idea che i contenuti disciplinari debbano essere modulati a seconda delle ipotetiche capacità dei ragazzi e della popolazione scolastica di riferimento.
Tuttavia, la dicotomia tra le diverse tipologie di scuola appare evidente anche nella didattica. Se si considera la produzione scritta in italiano pare che la stesura di un saggio breve o la realizzazione di un’analisi di un testo poetico siano esclusivamente ad appannaggio dei liceali. Presuppongono capacità e competenze che, a detta di molti, non è possibile ritrovare in chi frequenta le scuole tecniche e professionali.
Anche da un punto di vista strutturale e delle tecnologie informatiche appare evidente la diversità di trattamento riservato ai diversi percorsi formativi. Non è difficile imbattersi in istituti professionali con laboratori che non sono laboratori; con aule informatiche senza computer e senza connessione; con palestre senza attrezzatura sportiva perché a rischio furto.
Ma editoria, didattica, edilizia e tecnologia sono soltanto alcuni ambiti dai quali risalta la diversa attenzione riservata ai percorsi scolastici. Spesso però se ne dimentica uno altrettanto importante, forse il principale. La voce di chi frequenta quelle scuole. Sono racconti di ragazzi che sanno inconsciamente di essere figli di un dio minore e di vivere una condizione di marginalizzazione culturale. Studenti che non hanno la forza e la voglia di esprimere desideri, di inseguire i sogni, di raccontare le loro speranze. Accettano che la vita scorra passivamente senza lasciare tracce nel loro vissuto. In questo, il retaggio della riforma gentiliana ha senz’altro le sue colpe. È altrettanto inconfutabile però che anche gli insegnanti abbiano le loro responsabilità. Hanno abdicato al ruolo fondamentale che la professione impone. E l’etimologia del verbo “insegnare” è lì a ricordarcelo. Lungi dal limitarsi alla trasmissione del sapere fine a sè stesso, insegnare vuol dire “segnare” la mente del discente, lasciando impresso un metodo di approccio alla realtà, che va ben oltre lo studio. Un metodo che non implica alcuna gerarchia tra scuole ed alunni, nessuna differenza tra percorsi formativi.

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