L’analisi bioenergetica di Alexander Lowen
Lo Psichiatra Alexander Lowen è nato nella “Grande Mela” il 23 dicembre 1910 ed è scomparso circa 13 anni fa nella Contea di Fairfield, nel Connecticut. Lowen fu allievo del freniatra austriaco Wilhelm Reich, a sua volta discente del “Padre della Psicoanalisi” Sigmund Freud. Con il medico statunitense John Pierrakos studiò un approccio psicoterapeutico orientato al corpo chiamato “analisi bioenergetica”. Le tensioni psichiche dell’età dell’infanzia generano repliche fisiologiche e azioni di difesa dell’essere vivente al fine di rimuovere le sensazioni di sofferenza e i sentimenti di angoscia: lo psicoterapeuta del “Melting pot” suddivide gli individui delle sue ricerche in “tipi caratteriali”. L’evoluzione umana è contraddistinta da una sequenza di stadi con esigenze e necessità ben definite, e il loro disequilibrio porta a problematiche preoccupanti. Ad esempio, il rapporto relazionale con i genitori è fondamentale per appagare ciò che occorre e quanto necessario, e qualora tale legame sociale non avesse il profilo necessario, la persona in oggetto si distacca dalla percezione del fondamento della propria personalità, il sé. Le figure primarie, dunque, hanno la responsabilità di tramandare ai figli il patrimonio “genetico” di paradigmi affettivi ed archetipi dei legami che il “dipendente affettivo” rinnoverà a sua volta mantenendo le posizioni di guardia, diffidenza e sospetto. Gli studi di Lowen parlano di “carattere orale” per la dipendenza affettiva, descrivendone addirittura il portamento e l’atonia del tessuto muscolare: è apatico, non è di polso, ha un fare caratterizzato dalla pretensione, non è pragmatico, talvolta è prevaricatore, si cruccia, si rammarica, si affligge. La sua è una vera e propria appetenza di indennizzo affettivo, di contropartita emotiva, ma allo stesso tempo non si ama, si trascura, si lascia andare, è abulico di fronte a ciò che gli occorre, e sovente sublima il suo stato interiore in chi ha bisogno ed è in difficoltà soccorrendo, favorendo e prestando aiuto. Clinicamente lo psichiatra newyorkese ha riscontrato che la figura primaria materna del dipendente affettivo presentava prostrazioni psichiche, disforie, malesseri depressivi, una personalità labile e mutevole: in tale contesto era la madre a voler ottenere assistenza e aiuti dalla prole non consentendo così il normale sviluppo dei processi psichici di autonomia e sovranità individuale. Il bambino, dunque, sospeso in una dimensione acronica, ha dovuto mettere in atto comportamenti mirati a “rimettere in salute” i propri genitori, a curare la loro accidia affettiva, l’apatia spirituale, l’inoperosità dei sentimenti, per farli uscire da quell’inerzia morale e da quella inattività intellettuale. Il nostro dipendente affettivo, nelle relazioni empatiche, presenterà un avvicendamento contro-polare di profonda riserva e di grande slancio, di scetticismo e affidamento, alla ricerca di quel legame filiale e di quel vincolo affettivo di cui è stato privato e di cui cerca una replica virtuale nella nuova “amitié amoureuse”: bassa auto-percezione e infima considerazione del valore personale, uno iato profondo tra il “sé percepito” e il “sé ideale” di jamesiana reminiscenza, carente attitudine del meccanismo di adattamento del “coping reattivo”, propensione simbiotica relazionale patologica dovuta ad una discriminazione inefficace del sé nella relazione madre-bambino, trasfigurazione mitizzata della figura amata.