L’incapacità di comunicare. Scienziati, politici e l’emergenza sanitaria
Marco Fabio Quintiliano, celebre oratore romano del I secolo d.C., nel delineare le peculiarità dell’ars dicendi (“arte del parlare” N.d.R.) tratteggiava la fisionomia del buon oratore riprendendo un’espressione di Catone, vir bonus dicendi peritus (“uomo di valore, ed esperto nel dire” N.d.R.). In sostanza, contrapponeva l’uomo onesto abile nel parlare al tecnico esperto nell’arte oratoria.
Benché possa sembrare una forzatura, un azzardo paragonare un oratore d’epoca romana a un comunicatore d’età contemporanea – inteso qui come figura che veicola informazioni e conoscenze ad un ampio pubblico – si potrebbe tuttavia riflettere su alcuni termini chiave. Uno in particolare: l’onestà.
Chi riveste oggi un ruolo pubblico, sia esso uno scienziato, un politico o un giornalista, in virtù del quale è chiamato ad intervenire in dibattiti non privati dovrebbe sentire forte il peso delle parole che pronuncia. Comunicare intaccando i sentimenti, colpendo le emozioni o peggio ancora parlare senza valutarne gli effetti, vuol dire rinnegare l’onestà e, cosa certamente più grave, generare confusione e disorientamento.
L’attuale emergenza sanitaria ha messo a nudo, tra le innumerevoli debolezze del genere umano, proprio l’incapacità di comunicare, non nel senso dell’impossibilità di padroneggiare correttamente la lingua madre bensì nel suo impiego strumentale. La parola si piega cioè a soddisfare questo o quell’altro interesse.
Tale incapacità è ad esempio emersa in maniera lampante nel momento in cui la comunità scientifica è stata chiamata in causa, volente o nolente, a veicolare sic et simpliciter (“così e semplicemente” N.d.R.) le informazioni sul nuovo coronavirus che da marzo 2020 ha scombussolato la nostra quotidianità. E così, studiosi e ricercatori di alto profilo hanno mostrato le loro evidenti difficoltà a ricorrere ad un linguaggio che non fosse eccessivamente accademico, finendo per adottare una strategia comunicativa che lungi dall’orientare i cittadini ha invece disorientato le loro coscienze.
Un serrato confronto tra epidemiologi, virologi, statistici, medici – alimentato peraltro ad arte dalla stampa nazionale e internazionale – ha avuto infatti il demerito di accrescere la diffidenza nei confronti della medicina in particolare, della scienza in generale. Affermazioni e smentite, slanci ottimistici e narrazioni pessimistiche hanno accompagnato il racconto della pandemia sin dall’inizio. Agli esordi della campagna vaccinale in Italia, a partire da gennaio 2021, Andrea Crisanti, professore ordinario di microbiologia all’Università di Pavia, dichiarava pubblicamente i suoi dubbi sull’efficacia e la sicurezza dei vaccini che si apprestavano ad essere autorizzati dall’agenzia europea del farmaco e poi dall’omologa italiana AIFA. Secondo Crisanti, se il tempo medio di produzione oscillava normalmente tra i cinque e gli otto anni, quelli contro il nuovo coronavirus, realizzati in poco meno di dodici mesi, non potevano essere considerati validi, sicuri. Benché quest’affermazione, seppur discutibile, avesse probabilmente nelle intenzioni dello scienziato qualche fondamento, avrebbe dovuto essere formulata diversamente. Non veniva infatti pronunciata nel chiuso di un convegno accademico; era rivolta a uditori non specialisti.
In un momento di grande tensione emotiva e al tempo stesso di grande speranza, le affermazioni di una donna o di un uomo di scienza si amplificano, acquistano maggiore risonanza per cui andrebbero attentamente ponderate. Inoltre, oltre ad aver destabilizzato i sentimenti dei cittadini, quelle parole delegittimavano il ruolo delle istituzioni preposte al controllo dei farmaci. L’inoculazione del vaccino avviene solo nel momento in cui le agenzie regolatorie mondiali lo autorizzano. E questo deve garantire sulla loro sicurezza ed efficacia e generare fiducia. In caso contrario si presterebbe il fianco ai complottisti, ai no vax e all’ampia schiera di scettici.
Dopo qualche settimana, Crisanti correggeva il tiro del suo comunicato, sostenendo che, alla luce dei dati resi noti dall’EMA, avrebbe fatto il vaccino senza alcuna remora. Oramai però il Rubicone era stato varcato. La scienza aveva nuovamente perso credibilità agli occhi dei cittadini.
L’errata strategia comunicativa al tempo del Covid non è stata messa in atto soltanto dalla comunità scientifica. Il mondo politico ha anch’esso le sue responsabilità. Di certo sorprendente è il fragoroso silenzio del Governo italiano in merito alla sospensione temporanea del vaccino AstraZeneca. Un vaccino su cui peraltro ha gravato sin da subito un forte pregiudizio – figlio delle chiacchiere da bar – che lo classificava di categoria inferiore rispetto ai più quotati preparati delle aziende Pfizer-BioNTech e Moderna.
Le notizie su alcuni decessi avvenuti all’indomani della somministrazione del vaccino AstraZeneca hanno generato una nuova ondata di panico tra la popolazione, non soltanto italiana. E sulla scia delle decisioni prese in Germania, l’Italia sospendeva, il 15 marzo scorso, l’utilizzo del farmaco in attesa del pronunciamento dell’EMA.
In quei giorni cruciali della campagna vaccinale, il Governo presieduto da Mario Draghi avrebbe dovuto sentire forte la responsabilità di comunicare con i cittadini per non lasciare spazio alla fuga incontrollata di notizie. E gli effetti di questo disastroso silenzio non hanno tardato a manifestarsi: contrariamente da quanto possano dire i dati statistici, la realtà racconta di persone non più disposte a sottoporsi al vaccino Astrazeneca.
I due casi, quello di Crisanti e del Governo italiano ai quali possono sommarsene molti altri, dimostrano come la comunicazione sia decisiva nella gestione di un’emergenza. Scienziati e politici in Italia non hanno avuto in ultima istanza l’umiltà di sciacquare i panni in Arno, come ebbe a dire Alessandro Manzoni a proposito del suo celebre romanzo. Non hanno saputo cioè formulare le loro riflessioni in maniera tale che risultassero chiare, semplici, intelligibili e soprattutto corrette.