La distruzione dello storico Caffè Vacca a Napoli
Un pezzo di storia commerciale del sud Italia perso a causa dei bombardamenti.
In un periodo di grande caos internazionale, esasperante isolamento e onerosa sopravvivenza giornaliera, spesso l’unico sollievo arriva da una risata e da un profumato caffè. Una speciale arte quella del prendersi in giro, di ridere anche delle più penose condizioni di vita, probabilmente la virtù più conosciuta della nostra cultura e del nostro modo di essere italiani. Ampiamente usata anche in questi tempi pandemici dove il caffè, similmente agli anni di guerra, pare essere un lusso tra saracinesche abbassate e divieto di visite, proprio durante la Seconda guerra mondiale essa raggiunse l’apice tra rassegnazione e concrete tragedie. Se già durante il ventennio la Patria aveva chiamato il popolo al sacrificio trasformando il caffè in orzo, quello di cicoria o di ghiande tostate, una brodaglia più che degna dello sfottò generalizzato, negli anni quaranta non fu meno difficile ingoiare l’amaro boccone della definitiva perdita di interi pezzi della nostra tradizione culturale e commerciale legata all’oro nero.
I pesanti bombardamenti del 1943, che purtroppo massacrarono il Paese soprattutto al sud, consumarono ampie porzioni di storia commerciale che non avremmo mai più recuperato. Proprio a Napoli, terra per eccellenza del caffè, gli attacchi dal cielo modificarono alcuni dei più caratteristici costumi locali di inizio ‘900. Durante la notte del 14 luglio, infatti, pochi giorni dopo l’invasione della Sicilia, i B-17 americani tornarono prepotenti sul capoluogo campano colpendo la famosa Villa Comunale e distruggendo completamente lo storico “Caffè Vacca”, un meraviglioso ritrovo ottocentesco a pochi passi dal Chiostro della musica, struttura che aveva visto passare nei suoi locali i più bei nomi dell’arte e della cultura europea. Roberto e Mariano Vacca, due imprenditori che avevano già operato precedentemente con successo nel campo del caffè, legati alla prospera apertura di altri importanti locali di Napoli, a fine ottocento avviarono questo ritrovo ubicandolo in ciò che era pure conosciuto come Real Passeggio di Chiaia, un vero giardino urbano voluto dai Borbone e progettato da Carlo Vanvitelli, figlio del più famoso Luigi noto per la costruzione della Reggia di Caserta.
Il Caffè Vacca, pur non essendo un vero e proprio ritrovo letterario, divenne presto un riferimento per le famiglie della media borghesia che si riunivano per ascoltare, nei giorni festivi, i concerti bandistici alla “Cassa Armonica”, diretti dal famoso maestro Raffaele Caravaglios, trascorrendo piccoli attimi di tregua dalle fatiche della vita o miracolose giornate di festa insieme ai bambini. Una tradizionale attività che condensava in sé il sogno di Ferdinando IV, quello del passeggio urbano tanto in auge nell’Europa di fine ‘700, e che nella Villa Reale vedeva il fulcro del rinnovamento di quella metropoli del sud che competeva direttamente con capitali europee del calibro di Parigi e Madrid. Una tradizione che nemmeno i Borbone avrebbero potuto immaginare così prolifica, tanto cresciuta da trasformare la Villa, insieme al Caffè Vacca, in teatro di posa, in luogo della musica per eccellenza e collettore della tradizione della caffetteria italiana. Nel particolarissimo e affascinante libro di Erminio Scalera, intitolato “I caffè napoletani”, lo scrittore partenopeo rende con minuziose e artistiche parole la notorietà e le sagome dello storico locale prima della sua sfortunata distruzione, ricordandolo come centro di attrazione e scenografia naturale delle vecchie pellicole d’inizio secolo, quelle dei primi film muti che si giravano a Napoli con Francesca Bertini e Leda Gys, grandi e invidiate star dell’epoca d’oro del cinema muto.
Ma per comprendere la profonda portata culturale e sociale di questo storico ritrovo napoletano, bisogna addentrarsi ancor più nella descrizione che Scalera ci concede dalle pagine del suo libro, evocando con romanticismo il panorama, i suoni, i sapori e gli odori che solo questo antico locale sapeva regalare alla città e ai suoi cittadini. Un vero dipinto sintattico con cui immaginare la folla entusiasta del Caffè Vacca, centro di gravità urbano per professionisti, pensionati, signore in manicotto, balie, soldati di cavalleria, artigiani, operai, carabinieri in gran uniforme, scanzonati studenti di provincia, camerieri in libera uscita. Tra i suoi tavolini non passavano solo camerieri in frac con sbrilluccicanti boccali di birra, gelati e cremolate di frutta, ma si potevano notare romantici amori sbocciati tra le belle vetrate gialle e blu che, colpite dai raggi del sole, trasformavano le coppie in arcobaleni di colore, vere trasfigurazioni mistiche di abbracci, profumi e tumultuose passioni. Il 17 luglio del ’43 toccò al Corriere di Napoli l’arduo compito di annunciare la sua vergognosa perdita, scrivendo che «…un cumulo di macerie giaceva al posto dove vivacchiava l’ultimo caffè della Napoli ottocentesca…» e ricordando pure che «…insieme con la fontana delle “paparelle”, con la carrozzina trainata dalle caprette, con il galoppatoio e la Cassa Armonica, il Caffè Vacca, come il Gambrinus, rappresentava un’istituzione napoletana…».
Di quel periodo, volendoci prendere in giro, ci resta il mito della ciofeca, semplicemente il caffè che non sa di caffè – questa è una schifezza! diceva il grande Totò – un liquido di colore scuro che simula, finge, surroga il sapore e l’odore dell’oro nero, ma che è davvero una pessima imitazione. E proprio oggi, quando la vita ci sembra una ciofeca grazie al Covid, vi esorto a tener bene in mente la mitica scena dell’ascensore di Bellavista: «prufessò resistete!». E così sia…