Jean-Paul Sartre, il filosofo che rifiutò il Premio Nobel
“Faccio, farò dei libri; ce n’è bisogno, e serve, malgrado tutto”.
Alla fine della Prima guerra mondiale impazzò in Europa la “sconnessione dell’essere”, corrente filosofica meglio nota con il nome di Esistenzialismo, che vide tra i massimi teorici Jean-Paul Sartre e Albert Camus, proponendo l’analisi dei paradossi della vita, l’assurdo e l’inspiegabile, sulla scia della sospensione della morale nella vita religiosa di Kierkegaard.
Nato a Parigi nel 1905 da una famiglia borghese, Sartre si avvicinò al mondo della letteratura grazie al nonno materno e dopo gli studi all’Ecole Normale supérieure, ottenne il primo posto dell’“agrégation” di filosofia divenendo professore sino al 1945. Tra i suoi saggi principali si ricordano “L’Essere e il Nulla” del 1943 e “La critica della ragione dialettica” del 1960. Filosofia, letteratura, politica e teatro, questo il climax professionale del saggista e drammaturgo francese, sul quale si pubblica ancora oggi un cospicuo numero di tesi, articoli e libri in tutto il mondo.
L’Urlo di Munch precursore dell’orrida desolazione provocata dalla guerra, sembra così avere un senso, rientrare nel corpo dell’artista e non più sbiadirsi tra le nubi vermiglie: l’angoscia, la noia, l’insoddisfazione, il dolore, e l’incapacità di dare un senso alla propria esistenza, il peso gravoso della responsabilità e delle proprie scelte, alle quali l’uomo non può sottrarsi, sono concetti vividi già in autori di epigrammi greci quali Asclepiade e Leonida di Taranto o nel mondo latino in Orazio, Seneca e soprattutto Lucrezio, quest’ultimo in particolare con la propria dottrina epicurea respinge l’horror vacui della morte. Vestendo i panni di uno specialista in campo medico, Sartre arriva a descrivere i sintomi del “Male di vivere” di baudelairiana e montaliana memoria attraverso la “Nausea”, titolo del romanzo edito nel 1938 in cui egli tratta la dimensione metafisica che porta l’uomo a soffrire della “gonfiezza” della vita come soffocante ingombro. Importante per comprendere lo scenario melanconico in cui Antoine Roquetin, protagonista del racconto, perde i sensi su di una panca assalito e subissato dalla Nausea, ci giunge in soccorso l’incisione a bulino Melancholia I di Albrecht Dürer, artista rinascimentale tedesco, ritraente una figura alata accigliata, seduta dinanzi ad una costruzione di pietra circondata da simboli appartenenti al mondo dell’alchimia: una bilancia, un cane scheletrico, attrezzi da falegname, una clessidra, un solido geometrico chiamato “troncato romboedrico”. Secondo la tradizione astrologica l’ambito alchemico era dominato dal pianeta Saturno, legato al sentimento della malinconia, quindi al temperamento melanconico. In riferimento alla teoria dei quattro umori concepita da Ippocrate (la terra corrisponde alla bile nera, in greco Melàine Chole, che ha sede nella milza; il fuoco corrisponde alla bile gialla detta talvolta collera, che ha sede nel fegato; l’acqua alla flemma che ha sede nella testa e l’aria al sangue la cui sede è il cuore), quando la “malinconia” cresce oltre misura, l’uomo può soffrire di una particolare infelicità, giungendo fino alla pazzia a seguito dell’eccessiva presenza di bile nera, ecco dispiegata, la dimensione alchemica che Sartre riprende da Dürer.
“Les enfer c’est les autres”, questa la frase altisonante che ha reso celebre il filosofo e saggista francese, erroneamente interpretata come spiega lui stesso. “Ho voluto dire «l’inferno, sono gli altri», ma è stato sempre frainteso. Si è creduto che volessi dire che i nostri rapporti con gli altri erano sempre avvelenati, che erano sempre dei rapporti infernali. Ora, è proprio tutta un’altra cosa ciò che volevo dire. […] noi ci giudichiamo con gli strumenti che gli altri hanno di giudicarci. Qualunque cosa dico di me, il giudizio degli altri è sempre in mezzo. Qualunque cosa io provi per me, il giudizio degli altri entra in mezzo. Ciò vuol dire che, se i miei rapporti sono cattivi, io mi metto a totale dipendenza degli altri e allora, in effetti, io sono nell’inferno. Ed esiste nel mondo una quantità di gente che è nell’inferno perché dipende troppo dal giudizio altrui.” La citazione risulta estrapolata dalla pièce teatrale “A porte chiuse”, del 1944, in cui tre personaggi sono costretti a vivere insieme in un salotto borghese privo di finestre e specchi dove attendono la morte. Ma pian piano questi comprendono di essere reclusi per torturarsi ed annientarsi vicendevolmente attraverso domande e commenti sulle rispettive vite, creando a poco a poco una ragnatela sociale morbosa. Un particolare sconvolge: la porta della stanza è sempre stata aperta ma nessuno si è accorto della possibilità di evadere ormai troppo coinvolto dal circolo vizioso.
“Gravido” del peso dell’esistenza, il 22 ottobre del 1964 Jean-Paul Sartre rifiutò il Nobel per la letteratura, perché la sua libertà non fosse alienata dal riconoscimento: “Il mio rifiuto non è un atto di improvvisazione. Lo scrittore deve rifiutare di lasciarsi trasformare in istituzione, anche se questo avviene nelle forme più onorevoli, come in questo caso” spiegò Sartre.
Esistenza e libertà: ossimoro della vita, dicotomia del sapere, è possibile tra esse un connubio salvifico? Sartre risponde: no; affinché l’individuo esca dal pantano della Nausea deve compiere una scelta. L’uomo nella solitudine che lo contraddistingue è libero di scegliere ma non libero di vivere perché eternamente condizionato dall’altro.