C.I.L., una meteora nella storia (prima parte)
Il 27 settembre 1943, in Puglia, nel cosiddetto Regno del Sud, trascorsi appena diciannove giorni dall’armistizio, un pugno di Ufficiali e poche migliaia di militari riuscirono a mettere in piedi una minuscola milizia armata organizzata, in un paese di sbandati in piena dissoluzione. Nasceva, così, il “Primo Raggruppamento Motorizzato”, agli ordini del Generale Vincenzo Dapino (1891-1957). Sembrava quasi impossibile che nel marasma in cui si dibattevano capi e gregari, si potesse creare ed organizzare un qualcosa di efficiente, capace di rappresentare, presso le potenti armate alleate, una Patria nuova ed il nuovo Esercito.
Del resto, appariva quanto mai necessaria, per la suprema salvezza nazionale, una pronta ripresa delle armi, per combattere a fianco degli alleati contro il tradizionale nemico dell’Italia. Ma per far questo, occorrevano uomini dotati di idealità superiori, occorrevano mezzi, occorrevano soprattutto comprensione ed appoggio morale. Con una fede quasi religiosa vennero superate difficoltà ed incomprensioni di ogni genere e quella “piccola” Grande Unità, l’8 dicembre di quell’anno affrontò, a Mignano di Monte Lungo, la prima prova d’onore e di gloria.
Il compito che le fu affidato era di gran lunga superiore alle sue possibilità, con mezzi assolutamente insufficienti ed inferiori a quelli dell’avversario. Le stesse informazioni sull’efficienza delle posizioni nemiche non corrispondevano alla verità. Tutto ciò aveva, comunque, un valore secondario. Si trattava di dimostrare al mondo che i soldati italiani volevano battersi per liberarsi dal giogo straniero. Gli uomini del Raggruppamento accettarono senza discussioni, quasi con letizia, la lotta impari, sublimandosi nel fuoco del combattimento.
Il 17 dicembre, a conclusione della vittoriosa battaglia per la conquista di Monte Lungo, il Generale Mark Wayne Clark (1896-1984), Comandante della V Armata americana, alle cui dipendenze operavano quegli uomini, inviò un messaggio, con il quale voleva esprimere il proprio compiacimento per il successo riportato nell’attacco ed affermare l’assoluta consapevolezza che la determinazione dimostrata nella volontà di liberare il proprio Paese dalla dominazione tedesca “può ben servire come esempio ai popoli oppressi d’Europa (lett.)”. Quelle parole rappresentarono un ambito premio a quella fede, a quella volontà e sancirono, in maniera inequivocabile, l’atto di nascita del nuovo risorgimento italiano.
Molti furono i morti, a quota 343, eroi purissimi di un’idea e luci vivissime nelle tenebre che avvolgevano l’Italia. Ma il discorso avviato dai caduti di Monte Lungo, non poteva esaurirsi in una semplice azione di guerra, sia pure brillante e condotta con coraggio, nonostante i mezzi disponibili di allora, ovvero senza niente di niente.
Dal nucleo di quei “veterani” prese vita il “Corpo Italiano di Liberazione” (C.I.L.) che, sul solco tracciato dal “Primo Raggruppamento Motorizzato”, si accrebbe fino a contare quattordici battaglioni di fanteria, un battaglione del genio, undici gruppi di artiglieria, per di una forza complessiva di venticinquemila uomini.
Il C.I.L. fu in prima linea, senza interruzione, dal febbraio al settembre del ’44. Lacero e scanzonato, si batté a fianco dei francesi, degli inglesi, dei polacchi, con una tenacia ed un valore, che furono obbiettivamente e cavallerescamente riconosciuti da tutti i cobelligeranti. Si erano, incredibile a dirsi, finalmente persuasi che dare armi ed equipaggiamento ai soldati italiani, valeva veramente la pena. Scaturì da ciò la decisione di formare i sei gruppi di combattimento che, soprattutto nel nord della penisola, si prodigarono così tanto generosamente, da essere assolutamente determinanti ed indispensabili alla vittoria finale, diventando il nocciolo della Forza Armata del futuro.
La storia potrebbe già finire qui, in questi pochi e scarni cenni sui suoi protagonisti, se non convenisse, altresì, osservarla da un altra prospettiva.
L’Italia, in ginocchio, chiese l’armistizio l’8 settembre, ma lo fece in maniera nebulosa, improvvisa e poco sincera. “La guerra continua”, si diceva. Ma con chi, o meglio, contro chi? Qualcuno optava per gli alleati del giorno prima, i tedeschi, qualcun altro per quelli del giorno dopo, gli anglo-americani. I primi erano consci di puntare sul cavallo perdente, i secondi speravano di farlo su quello vincente. Se qua e là si notavano, come faville in un grigiore crepuscolare, dei propositi di ripresa e di riscossa, la massa, che viveva in mezzo allo scalpore della lotta politica, delle recriminazioni e delle polemiche, era come presa dallo sconforto e da quell’amara rassegnazione che confinava con l’abulia. Era un naufragio nel quale tutte le idealità e le tradizioni sembrava fossero rimaste oscurate e sommerse. Molte delle aspirazioni nazionali decadevano e così pure decadevano molti dei valori morali, come lo stesso spirito combattivo della truppa. L’Italiano medio, dopo le tremende batoste subite su tutti i fronti (dalla campagna d’Africa alla disfatta di Russia, passando per il fronte greco-albanese), era stanco di guerra. Non ne poteva più. Ed era stanco anche del regime. Se si fosse dato retta all’uomo di strada, in armi o non, “si sarebbero dovuti buttare tutti a mare quei mascalzoni, governanti ed alleati di ogni colore!”.
Ma una guerra non è una partita a carte, dove ad un certo punto si possono gettare sul tavolo i valori bassi e le figure non accoppiate e dichiarare, magari con un mezzo sorriso, forfait. La guerra, si sa quando la si inizia, ma non si sa quando e come la si potrà finire. C’è sempre la volontà di un altro, dell’antagonista, che la decide, in un senso o nell’altro.
Gli americani, all’inizio, erano molto dubbiosi. Da un punto di vista strategico, la presenza cobelligerante degli italiani al loro fianco, era un ottimo veicolo propagandistico, per indebolire il morale, già a terra, dei tedeschi e di coloro che si ostinavano a stare dalla loro parte, vuoi per fedeltà alla parola data nel 1940, vuoi per convinzione politica. Ma, da un punto di vista militare, far entrare in guerra quei soldati appariva (avrebbero detto a fine conflitto) come un atto criminoso. In quelle condizioni, cos’altro avrebbero potuto fare quei poveri disgraziati, se non morire come mosche. Perciò, prima di decidersi, intesero metterli alla prova, una sorta di esame, in poche parole. Quell’esamino fu proprio la battaglia di Monte Lungo.
A seguito di quel successo, ai “paisà” venne dato il compito di organizzare a difesa i pendii occidentali appenninici e resistere ad eventuali rinforzi e ritorni del nemico il quale, vistosi attaccato di fronte, di fianco, di tergo e con ancora alle spalle i fiumi Garigliano e Rapido, ripiegò combattendo verso Cassino, dove la difesa aveva raggiunto un buon grado di efficienza.
Sulle vicende di Montecassino si è sempre parlato molto, gli storici ne hanno sempre parlato molto. Fu un errore, una disgrazia, un abbaglio tattico, una dolorosa necessità? Ciascuno ha detto la sua. Sta di fatto che l’abazia benedettina fu rasa al suolo e l’abitato di Cassino trasformato in un cumulo di macerie, in un mucchio di rovine.
Per il forzamento di quella “strozzatura difensiva”, venne a gran voce chiesto l’apporto italiano, quello del neonato “Corpo Italiano di Liberazione”. Il C.I.L., al comando del Generale Umberto Utili (1895-1952), nacque ufficialmente il 22 febbraio 1944, come Corpo d’Armata su due unità a livello divisionale. La prima venne creata ex novo, fondendo due brigate di fanteria (tra cui il Primo Raggruppamento Motorizzato al completo dei suoi bersaglieri, alpini, artiglieri, genieri ed autieri), l’altra costituita dalla 184a Divisione Paracadutisti “Nembo”, di stanza in Sardegna e velocemente riportata sul territorio continentale.