Racconti dal fronte

Nel linguaggio mediatico e scientifico per esprimere la drammaticità del momento che si sta attraversando si ricorre sovente alla metafora della guerra. Quotidianamente, la lotta al virus si tramuta in uno scontro militare in cui il più forte – la scienza – avrà, si spera, la meglio.
Accettando tale metafora, è facile comprendere perché i medici siano intesi come soldati in prima linea, che mettono a repentaglio la loro e altrui esistenza per difendere i più deboli, i fragili. Mutatis mutandis la scuola rappresenta, come gli ospedali, il fronte lungo cui un esercito senza armi resiste alla controffensiva del coronavirus. Un virus che ha sconvolto la vita di ragazze e ragazzi, così come dei loro insegnanti, dei dirigenti scolastici e non da ultimo delle famiglie. Ecco, dunque, il senso del “racconto dal fronte”: tre interviste, ad una mamma, ad un docente e ad un dirigente scolastico, che sono il tentativo di riportare in parole la complessità di un argomento – la scuola, l’insegnamento, la didattica a distanza – che spesso viene relegato a riflessioni e considerazioni di minore importanza. Si è scelto tuttavia di focalizzare l’attenzione sul ruolo degli insegnanti di sostegno, sul problema degli organici, sull’inclusione ascoltando tre voci differenti, tre ruoli diversi, tre esperienze professionali ed umane distinte; accomunate però dal medesimo obiettivo, la ferma volontà di garantire la crescita dei ragazzi e guidarli nell’incertezza che caratterizzerà il periodo post-pandemia.
Intervista ad una mamma
D. La scuola tornerà ad essere un luogo centrale nel percorso formativo e umano dei ragazzi soltanto se tutti gli attori coinvolti – famiglie, docenti e dirigenti – saranno coesi e faranno fronte comune. Ad oggi invece questi tre gruppi non riescono ad essere in sintonia per cui l’istruzione diventa un fardello sulle spalle dei ragazzi di cui si spera di liberarsi quanto prima. Cosa secondo lei non funziona nella scuola italiana?
R. Non essere tutti d’accordo a far frequentare la scuola ai ragazzi trovando il modo di tenerli in assoluta sicurezza.
D. Se è innegabile che la scuola abbia perso di credibilità, è altrettanto vero che resta l’ultimo baluardo della cultura, della sociabilità e della crescita umana dei nostri figli. Un baluardo da difendere strenuamente. Cosa si sente di dire a quei ragazzi e ragazze che abbandonano precocemente, seppur per ragioni differenti, la scuola?
R. Che non bisogna farlo, dato che solo con l’istruzione si può sperare in un futuro lavorativo e sociale adeguato.
D. La pandemia, che continua ad attanagliare la nostra quotidianità, ha reso i fragili più fragili e ha messo a nudo le sofferenze della scuola pubblica italiana. Dal suo punto di vista, come ha reagito l’istituto che frequenta suo figlio alle difficoltà di questo lungo periodo? Che attenzioni, inoltre, la scuola ha riservato agli studenti fragili?                  R. Niente da dire, in quanto i professori tutti e non solo quelli di sostegno hanno dato un grande supporto in qualunque momento della giornata.
D. Ogni anno si assiste inermi al cambio di docenti, in particolare quelli di sostegno. Una situazione che evidentemente colpisce tutti indistintamente ma che sembra gravare in modo particolare su alcuni ragazzi. Cosa comporta concretamente nel percorso di suo figlio questa condizione di incertezza e di instabilità del corpo insegnanti?
R. Che non riesce a capire perché ognuno ha il suo metodo e mentre segue un percorso ne deve fare un altro.
D. Che valore ha per lei la parola “inclusione”?
R. Un valore importante che dovrebbe riguardare tutti i ragazzi.
D. Cosa chiede infine alla scuola di suo figlio e a chi – docenti, dirigenti, compagni di classe – lo frequenta quotidianamente?
R. Di capirlo, dato che ha bisogno di più tempo per arrivare dove gli altri fanno prima, e di assecondarlo nelle sue esigenze fisiche.
Intervista alla Professoressa Simona Zullo, Funzione strumentale per gli interventi e i servizi a studenti con BES, disabili, stranieri e DSA; Referente docenti di sostegno ISIS “Attilio Romanò” di Napoli.
D. Da diversi anni la figura dell’insegnante è sottoposta ad una costante ed inesorabile delegittimazione culturale. Un processo che appare ancora più evidente per i docenti di sostegno specializzati, in numero sempre minore per effetto di scelte di politica scolastica sbagliate. Perché, ad oggi, il ruolo dell’insegnante di sostegno non gode della necessaria e dovuta attenzione sia politica sia culturale?
R. Innanzitutto ti ringrazio per questa “chiacchierata”, in un periodo così complicato da un punto di vista sociale e culturale. Il ruolo dell’insegnante di sostegno è da sempre stato un po’ bistrattato, ha sempre raccolto in sé la dicotomia tra teoria e prassi. Mi spiego meglio: da un punto di vista legislativo sono ben chiari i compiti, il ruolo dell’insegnante di sostegno, ma da un punto di vista pratico, di vita quotidiana non è così, soprattutto se si tiene presente il numero elevato di docenti che vengono assegnati su posti di sostegno, senza titolo, senza esperienza in un campo così delicato che deve prevedere una buona formazione, alle volte addirittura senza esperienza nel campo dell’insegnamento. Sebbene l’Italia in campo di inclusione scolastica sia all’avanguardia – basti pensare alla legge 517/77 che abolì le scuole speciali – ancora è difficile nella prassi mettere in campo azioni inclusive, che ricordo non riguardano solo gli alunni BES (alunni con bisogni educativi speciali), ma tutto il gruppo classe, composto da ragazzi che sono differenti gli uni dagli altri, con delle predisposizioni naturali, o con predisposizioni ancora non scoperte, o addirittura con delle eccellenze che non sempre vengono valorizzate.
A mio avviso, urge un cambio di paradigma nella scuola e può iniziare solo con una formazione obbligatoria per tutto il corpo docente “vecchio” di ruolo da anni, e nelle nuove reclute affinché sia reso chiaro che fare inclusione non significa unicamente fare riassunti o mappe concettuali, mappe mentali, ma indirizzare il proprio stile di insegnamento in modo tale che ognuno possa sviluppare le proprie potenzialità, progettando quindi, organizzando tempi, spazi e soprattutto utilizzando nuove modalità di approccio. Ciò non riguarda solo il docente di sostegno, ma tutti i docenti.
La lezione tradizionale, quella in cui si trasmette il “sapere” dovrebbe essere al bando.
La delegittimazione, a mio avviso, nasce dal ricordo di quello che si faceva molti anni fa, usare cioè il titolo di sostegno per avere un pass alla classe di concorso. Graduatorie infinite… pagine e pagine di numeri. E così molti hanno lasciato trascorrere i cinque anni, in attesa del passaggio, senza dare la giusta importanza al ruolo che ricopriva. Così è nata anche la diceria “degli insegnanti di sostegno come farfalline”, che svolazzano da fiore in fiore senza lasciare una traccia. Anche la modalità di reclutamento dei docenti, i concorsi che anni addietro si svolgevano a pochi anni di distanza, non ha aiutato.
Altro passaggio fondamentale è stato quello di convertire i docenti delle classi di concorso in esubero in docenti di sostegno, con una formazione non sufficiente a far fronte ad un ruolo così delicato.
Oggi che c’è tanto bisogno di docenti specializzati, i TFA – tirocini formati attivi per l’abilitazione all’insegnamento – per i docenti che hanno già svolto anni di insegnamento sul sostegno senza titolo sono in numero ridotto, così come i docenti che vi accedono. Ancora una volta punto cruciale è la FORMAZIONE, FORMAZIONE e FORMAZIONE.
D. L’anno scolastico in corso, giunto oramai al suo epilogo, ha registrato come i precedenti un numero spropositato di cattedre vacanti sul sostegno. Le graduatorie sono esaurite, i concorsi bloccati e i percorsi abilitanti procedono a singhiozzo per cui ancora una volta si è dovuto ricorrere a docenti non specializzati. Una situazione che ha evidentemente penalizzato gli alunni e le loro famiglie. Quali potrebbero essere le soluzioni per superare questo problema? Potrebbe essere valida l’ipotesi di concorsi riservati a chi ha maturato diversi anni di servizio sul sostegno pur essendo privo del titolo di specializzazione?
R. Assolutamente sì, diamo la possibilità a tanti colleghi che scelgono questa professione di poter lavorare con continuità con le classi loro assegnate. Parlo di classi, non è un errore. L’insegnante di sostegno è titolare della classe di loro assegnazione, ci tengo a sottolinearlo!
D. Un’errata considerazione, ancora oggi fortemente radicata, definisce l’insegnante di sostegno come quella figura riservata esclusivamente all’alunno disabile. In realtà, esso delinea una serie di professionalità, competenze e conoscenze che sono al servizio di tutto il gruppo classe al fine di favorire l’integrazione degli alunni in condizione di svantaggio. Secondo lei, la strada è ancora lunga per comprendere che la diversità è un elemento fondamentale dell’integrazione?
R. Come accennavo prima non dobbiamo parlare di integrazione, ma di inclusione. Ognuno di noi è differente dall’altro con i propri punti di forza e di svantaggio. Il docente di sostegno è un mediatore tra i protagonisti dell’educazione: i ragazzi della classe – tutti – colleghi, dirigenti e genitori e deve coinvolgerli nell’attivazione di un processo di ricerca continua di metodologie inclusive. Dobbiamo necessariamente pensare che ognuno di noi ha difficoltà, ciò che ci aiuta a superarle è non solo la volontà, ma anche crearci situazioni favorevoli per poterlo fare. Se i ragazzi non sono in grado di creare da soli situazioni ottimali, dobbiamo aiutarli.
Non parlerei di strada lunga per raggiungere un obiettivo, parlerei di viaggio di scoperta, bisogna vedere chi vuole intraprendere il viaggio, che sicuramente non è facile perché ci mette di fronte alle nostre difficoltà, paure e incongruenza di fondo. Accettare la sfida è dura!
D. Lo scorso 2 aprile è stata celebrata la Giornata Mondiale della consapevolezza sull’autismo, un disturbo del neuro-sviluppo su cui gravano ancora forti pregiudizi e grande confusione. Potrebbe aiutarci a definire meglio l’autismo e raccontarci quali sono le metodologie e le competenze che un docente di sostegno mette in campo nella relazione con alunno autistico?
R. Sì, il 2 aprile è stata la Giornata mondiale sulla consapevolezza dell’autismo. È un giorno in cui tutti i componenti della comunità scolastica dovrebbero dare il loro contributo. La scuola a cui appartengo ha dedicato un numero del giornalino della scuola a questo tema, coinvolgendo varie classi. È stata una bellissima occasione di confronto e sensibilizzazione.
Purtroppo, quando si parla di autismo ci sono ancora tante paure e pregiudizi, sempre a causa della scarsa informazione/formazione sul tema.
Occorre sottolineare che ogni soggetto autistico è diverso dagli altri: alcuni sono capaci di integrarsi nella vita sociale e di avere relazioni più o meno soddisfacenti; altri hanno una ridotta capacità di interazione e comunicazione sociale, hanno comportamenti ripetitivi e un drasticamente limitato campo degli interessi, non amano il contatto fisico né mantengono il contatto visivo. Possiamo distinguere le diverse manifestazioni dello spettro autistico in autismo ad alto funzionamento (soggetti capaci di comunicare verbalmente e dotati di un’intelligenza normale o addirittura superiore, tanto da avere a volte straordinarie abilità in molti campi) e autismo a basso funzionamento (soggetti che non sono capaci di usare un linguaggio appropriato e hanno capacità mentali insufficienti).
Numerosi sono i metodi messi in campo per i ragazzi affetti da autismo, dal metodo Dolman, a quello Teacch, il metodo Aba, gli specialisti del settore. Occorre comunque ricordare che la Neuropsichiatria in primis individua il metodo più rispondente alle necessità del ragazzo.
La scuola può e deve rispondere alle richieste dei ragazzi, non solo formando gli insegnanti ma anche permettendo l’accesso alla struttura scolastica ad educatori specializzati.
Dal punto di vista di insegnante di sostegno è importane prendere subito contatto con i genitori che presentano il proprio figlio con molta lealtà e trasparenza, quali sono le abilità, le difficoltà, ciò che gli piace fare e ciò che lo disturba. Altro passaggio fondamentale è prendere contatto con la Neuropsichiatria dell’Asl di appartenenza per avere notizie utili su quali metodi seguire; ancora contatti con eventuali terapisti. Infine, ma non ultimo, l’osservazione sul campo.
Indispensabile è creare una rete di collaborazione attiva con tutte le figure di riferimento della famiglia, che viene presa in carico anche dalla scuola.
Le competenze metodologiche diventano strumento per interagire positivamente con i ragazzi, ma soprattutto buon senso e tanta voglia di superare le difficoltà.
D. Riguardo proprio alla consapevolezza, accade spesso che le famiglie di ragazzi diversamente abili non ne prendano volontariamente coscienza rifiutando di conseguenza l’insegnante di sostegno. La disabilità viene percepita come emarginazione ed esclusione. Come la scuola può intervenire?
R. Ancora oggi molti genitori nascondono che il figlio necessiti del supporto dell’insegnante di sostegno per paura che vengano presi in giro, che si sentano diversi. Questa è una delle perplessità che spesso mi espongono i genitori all’atto dell’iscrizione. La mia risposta è sempre la medesima: l’insegnante di sostegno non è l’insegnante del ragazzo/a ma della classe; mette al servizio della comunità educante le sue competenze comunicative e metodologiche.
La scuola interviene, e ci sono scuole che lo fanno, mettendo in atto tutte le strategie inclusive possibili, sottolineando i successi e tentando di ridurre le difficoltà.
D. Cosa ha significato per lei, e quindi per i suoi alunni, svolgere la professione in questo lungo periodo di emergenza sanitaria, dominata dalla didattica a distanza e da restrizioni che hanno forse colpito più degli altri gli alunni fragili?
R. La pandemia ha leso profondamente tutti i ragazzi, in particolare i fragili. La scuola di cui fieramente faccio parte – l’ISIS Attilio Romanò di Napoli – ha fornito, in comodato d’uso, tablet e connessione per coloro che non possedevano dispositivi adeguati alla didattica a distanza. Il primo obiettivo che la scuola si è posta è stato quello di mantenere il rapporto educativo instaurato. Noi insegnanti di sostegno abbiamo accompagnato, ed accompagniamo, gli alunni in questo periodo senza badare ad orari o a giorni; abbiamo dato la disponibilità ai ragazzi sette giorni su sette, dalla mattina fino a sera. Abbiamo ascoltato le difficoltà delle famiglie, abbiamo cercato un modo per ridurle, abbiamo dato più risalto del solito al benessere psicologico dei ragazzi. Siamo stati loro vicini come abbiamo potuto. Tuttavia, la nostra azione si esplica soprattutto da vicino. La pacca sulla spalla o l’abbraccio è mancato a loro come a noi.
È stato ed è molto difficile. Le difficoltà che hanno i nostri ragazzi sono le stesse che accompagnano anche noi in questo periodo. Essere un punto di riferimento, un esempio, e spronare i ragazzi a non lasciarsi andare non è sempre semplice.
Certo che per alcune tipologie di alunni fragili è stato ancora più difficile. Penso ai ragazzi con lo spettro autistico, o disturbi del comportamento, o coloro che hanno contesti familiari difficili: per loro la comunità scolastica rappresenta un momento di condivisione importantissimo. Anche in questo caso abbiamo fatto quello che abbiamo potuto.
Ci auguriamo di poterci abbracciare, presto, in sicurezza.
Intervista alla professoressa Anna De Paola, Dirigente scolastico ISIS “Attilio Romanò” di Napoli.
D. Come spesso accade, la centralità e l’importanza di alcune istituzioni statali – gli ospedali, le scuole, le università – emergono con prepotenza in momenti di crisi, mentre in tempi di quiete acquisiscono minore importanza nell’agenda politica del Paese. Cosa ha significato per lei dirigere la sua scuola durante la pandemia da Covid-19? Pare che le narrazioni degli organi di governo raccontino una realtà diversa da come è stata concretamente negli istituti italiani.
R. In un momento tanto duro e difficile per tutto il Paese, la nostra scuola, come le altre, si è attivata non senza difficoltà per garantire il diritto allo studio e la continuità didattica attraverso la modalità della didattica a distanza, con una molteplicità di strumenti ed opzioni per ogni classe.
La priorità, anche in attuazione delle disposizioni ministeriali, è stata quella di non interrompere l’azione didattico-formativa e la comunicazione con i nostri studenti, accompagnandoli e coinvolgendoli in un percorso formativo personale in un’ottica di cittadinanza attiva.
Molte persone hanno lavorato per garantire il necessario supporto tecnico per consentire in tempi brevi un nuovo contesto di insegnamento-apprendimento: sento di ringraziare profondamente tutti i docenti per l’impegno grande, immediato, appassionato profuso per l’attivazione della Didattica a Distanza.
Sono davvero orgogliosa di essere il Dirigente di una comunità tanto professionale, disponibile e appassionata. I vari monitoraggi effettuati sulla partecipazione alla DAD hanno dato risultati strabilianti.
Quasi tutti gli studenti hanno partecipato con entusiasmo, sia da PC sia da smartphone, alle attività proposte utilizzando le piattaforme attivate.
Nella situazione che viviamo, il compito formativo della nostra Scuola si è rafforzato: la crisi è diventata un‘occasione di crescita ovvero anche se siamo tutti a casa, ci sentiamo tutti a scuola per mantenere viva la nostra “comunità”, il senso di appartenenza, combattere il rischio di isolamento, di abbandono, di demotivazione dei nostri studenti, specie dei più fragili.
In questo momento di totale incertezza sui tempi di soluzione dell’emergenza corona virus la Scuola Attilio Romanò è rimasta nel territorio un punto di riferimento saldo e affidabile per l’intera comunità scolastica e posso in modo provato affermare che, in questa esperienza nuova, ciascun componente di essa ha fatto la sua parte al meglio delle sue capacità.
D. Un compito particolarmente arduo da affrontare quest’anno, acuito proprio dall’emergenza sanitaria, è stata la composizione degli organici, con le scuole che, come succede oramai da lungo tempo, hanno dovuto ricorrere ad un numero molto elevato di supplenti. Cos’è che impedisce all’Italia di avere gli insegnanti in cattedra all’inizio di ogni anno scolastico senza che gli alunni debbano attendere, nella migliore delle ipotesi, i mesi di novembre e dicembre per avere i loro professori?
R. A mio avviso manca una corretta politica di pianificazione del fabbisogno di personale docente nelle scuole statali emergente dal Piano triennale dell’offerta formativa (PTOF) di ciascuna scuola. Paghiamo lo scotto del fallimento di politiche di arruolamento scolastico, i vuoti delle cattedre vengono riempiti con troppa lentezza; non si può procedere solo per concorsi, ma è necessaria una procedura di reclutamento e stabilizzazione come avviene nella Pubblica amministrazione.
D. Il problema è ancor più lampante e grave se si guarda agli organici di sostegno che vengono formati quasi mai in maniera tempestiva. Un’evenienza che costringe i dirigenti a nominare personale non adeguatamente formato e non specializzato, a svantaggio della didattica e degli alunni fragili. È questo, a suo avviso, il segno, contrariamente a quanto afferma la vulgata politica, di una scarsa attenzione riservata alla disabilità e agli insegnanti di sostegno?
R. Dal mio punto di vista, dal momento che la disabilità è un mondo vastissimo cioè si possono presentare condizioni di disabilità fisica, psichica e/o sensoriale, disturbi specifici di apprendimento, disturbi evolutivi, il problema della mancanza di docenti di sostegno “adeguatamente formati” è un fatto gravissimo in quanto i soggetti “fragili, disabili” aumentano nelle scuole ma purtroppo oggi capita spesso che non possono essere seguiti da persone specializzate ma vengono affiancati e supportati da docenti che non posseggono una specifica abilitazione.
D. Quasi certamente anche il prossimo anno scolastico registrerà importanti carenze negli organici di sostegno per cui si dovrà ricorrere nuovamente ai supplenti. Questa situazione che effetti può avere sulla stesura dei nuovi piani educativi individualizzati (PEI)?
R. I nuovi modelli PEI sono strutturati in modo da permettere una progettazione individualizzata per ciascun alunno con disabilità per favorire l’integrazione scolastica, grazie alla suddivisione in sezioni – professionalità necessarie, strumenti di supporto, interventi educativo-didattici, obiettivi, modalità di valutazione –; la redazione del PEI sarà affidata, come in passato, al Gruppo di Lavoro Operativo composto da tutti i docenti di classe, dagli operatori sanitari e dalle famiglie ma senza una formazione obbligatoria di tutti i docenti sulle tematiche dell’inclusione difficilmente si riuscirà a consolidare il concetto della presa in carico dell’alunno da parte di tutta la comunità scolastica.
D. Che siano di ruolo o a tempo determinato, cosa chiede ai docenti di sostegno della sua scuola e quali aspettative ripone in loro?
R. Chiedo di rispettare le necessità o esigenze di tutti, progettando ed organizzando gli ambienti di apprendimento e le attività, in modo da permettere a ciascuno di partecipare alla vita di classe ed all’apprendimento, nella maniera più attiva, autonoma ed utile possibile.
D. Cosa significa per lei e nella sua attività professionale la parola “inclusione”?
R. Con il termine “inclusione” intendo il processo attraverso il quale la scuola diventa un ambiente che
risponde ai bisogni di tutti gli alunni, in particolare di quelli con bisogni educativi speciali.
Gli alunni con disturbi dell’apprendimento, con disagio sociale e con disabilità hanno diritto a sviluppare tutte le loro potenzialità, usufruendo dei percorsi scolastici e formativi riconosciuti utili ai fini di un inserimento positivo all’interno del tessuto sociale, civile e lavorativo.
Per alcuni studenti affrontare il percorso di apprendimento scolastico può risultare più complesso e più difficoltoso rispetto ai compagni. In casi come questi i bisogni educativi “normali” (sviluppo delle competenze, appartenenza sociale, autostima, autonomia) diventano bisogni educativi “speciali”, più complessi, per i quali è importante dare una risposta appropriata a soddisfarli.
Per ognuno la scuola si deve organizzare in modo da offrire una pluralità di risposte attente ai bisogni di ciascuno attraverso percorsi individualizzati e/o personalizzati.

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