C.I.L., una meteora nella storia (seconda ed ultima parte)
Come si è detto nella prima parte, inquadrati nel X Corpo d’Armata dell’VIII Armata britannica, in un coloratissimo mosaico etnico (polacchi, neozelandesi, indiani, algerini, marocchini, francesi, palestinesi, inglesi, americani), gli uomini del C.I.L. avevano un compito sia offensivo, che difensivo. In altre parole, dovevano rimanere sulle posizioni assegnate e resistere all’eventuale impatto nemico. I rilievi montuosi che si estendevano fra il mare ed i monti Aurunci, malgrado l’altitudine non elevata, presentavano caratteristiche d’alta montagna e ciò diede parecchio filo da torcere a uomini che alla montagna non erano abituati. Per il soldato di pianura, i forti dislivelli hanno, da sempre, avuto un effetto demoralizzante. Il montanaro, al contrario, vi ha sempre trovato protezione e, se vogliamo, anche un’arma, tanto più efficace quanto più saputa usare. In quel momento storico, il C.I.L. non disponeva di truppe alpine. Paradossalmente, le uniche che avevano dato prova di sfrontatezza e di cocciutaggine al movimento su quel terreno, risultarono essere quelle algerine e marocchine. Erano composte da severi guerrieri, abituati alla lotta più dura, violenti e parchi, feroci e primitivi. Sprofondati in una nicchia sul terreno, avvolti nel loro “burnus” (nei dialetti arabi del Maghreb, è l’ampio mantello di lana, tipico dell’abbigliamento maschile), con il cappuccio fin sopra gli occhi, alle prime luci dell’alba, balzavano come molle all’attacco, accontentandosi di un po’ di pane e di acqua bevuta alle fonti. La loro soddisfazione era il bottino, il portare via al nemico, morto e catturato, un orologio da quattro soldi o un ciondolo. Quel modo di combattere, ancestrale ed animalesco, fece scorrere, ai difensori della “Linea Gustav”, non pochi brividi lungo la schiena.
Sulle ripide pendici sottostanti l’Abazia di Montecassino, la violenza nell’attacco di tutte le compagini anglo-americane, lo strapotere dei mezzi impiegati ed i continui bombardamenti, sottoponevano costantemente i nervi dei combattenti, di entrambe le parti, ad un durissimo logorio. Per scarsità di uomini, i nazisti non potevano usufruire di quel ricambio che avrebbe consentito l’utilizzo di forze fresche e riposate, né sfruttare l’intervento di quei mezzi corazzati che avevano consentito loro le sfolgoranti vittorie sul fronte occidentale europeo. Lungo le strette vie che si inerpicavano fra le balze, il carro armato sarebbe stato un inutile fardello. Gli aerei alleati, dal canto loro, operavano incessantemente, di giorno e di notte. In sole ventiquattro ore, arrivarono a compiere anche 2750 missioni. Il Feldmaresciallo Hermann Göring, responsabile della condotta della guerra aerea nazista, non poté far altro che mangiarsi le unghie e le intere mani, per la disperazione. Quando gli Alleati iniziarono la manovra di aggiramento della fascia (gli antichi romani avrebbero parlato di “ala”) destra dello schieramento tedesco, la temibile Wehrmacht evidenziò tutte le proprie difficoltà. L’intera “Linea Gustav” iniziò a crollare sotto i colpi, a cedere poco a poco, frantumandosi in mille resistenze. Finita vittoriosamente quella logorante sanguinosa azione, le forze alleate poterono aprirsi la strada per l’occupazione di Roma, mentre quelle tedesche, si ritirarono, attestandosi sulla successiva linea difensiva, la “Gotica”, continuando un’efficace opposizione fino alla conclusione del conflitto.
Il Corpo Italiano di Liberazione proseguì il proprio percorso di combattimenti verso nord, reagendo con le proprie unità a feroci scontri nella zona delle Mainarde, tuffandosi a capo fitto in 56 giorni di operazioni ininterrotte. Un’avanzata di 160 chilometri, guadagnando terreno con aspre lotte di trincea davanti ad Orsogna, tallonando il nemico fino a Pescara, colpendolo con veemenza a Chieti, conquistando Filottrano ed entrando, il 20 luglio, vittorioso a Jesi. Solo con il sacrificio dei nostri soldati, l’Armata britannica, il giorno dopo, poté insediarsi ad Ancona. Le marce senza soste, senza la possibilità di riprendere fiato si erano susseguite con inflessibile volontà, ad un prezzo molto oneroso. Oltre al compito di travolgere l’avversario, quegli uomini dovevano assicurare la protezione delle truppe amiche fino al mare. Era un impegno non facile, poiché tra loro e gli inglesi c’erano più di trenta chilometri di vuoto ed i tedeschi, ancorché affievoliti ed avviliti, erano comunque sempre pronti ad approfittare di ogni momentanea debolezza, per provocare pesanti danni, con improvvisi ritorni offensivi.
Il 23 luglio 1944, il vertice dell’VIII Armata britannica offrì, nel capoluogo marchigiano, un ricevimento al quale fu invitato a partecipare anche il Generale Umberto Utili, Comandante del C.I.L., in onore di un personaggio che passò per essere il Generale Callingwood. Sotto quell’etichetta, che sapeva spudoratamente di pseudonimo, si celava, in realtà, la figura di Sua Maestà britannica, Re Giorgio VI (1895-1952). Magro, quasi scheletrico, le maniche della camicia militare rimboccate, senza una decorazione, con la sigaretta, come di sovente, nascosta nel palmo della mano, apparve subito ai presenti molto simpatico. Conversava con tutti e di tutto. Sorrideva, in quella tenuta semplice e senza pretese, assai lontana dal distacco di altri regnanti, senza il codazzo di ossequiosi ed inutili personaggi. Il padre dell’attuale sovrana inglese seppe trovare parole di elogio anche per i nostri, parole efficaci. “Voi del Corpo Italiano di Liberazione avete combattuto eroicamente ed avete subito ingenti perdite. So bene che vi sono state deficienze di molte cose, vestiario, equipaggiamento, trasporti. Noi avremmo dovuto fornirvelo e me ne rammarico molto. Ma la guerra è sempre la guerra e noi soldati dobbiamo fare del nostro meglio, con quello che abbiamo tra le mani. Vi informo personalmente che verrete radunati nella zona di Benevento, dove farete il vostro addestramento. Lì sarete equipaggiati ed imparerete a maneggiare armi inglesi. Vi trovate da molto tempo in prima linea ed ora è giunto il momento, come peraltro accade per le divisioni britanniche, di ritirarvi temporaneamente dalla linea e concedervi un ben meritato riposo. Avete combattuto bene. Ed è per questo motivo che il Generale Alexander (Harold, Comandante in Capo delle Forze Alleate in Italia) ha chiesto di costituire una più numerosa forza combattente italiana. Ciò è una bella soddisfazione per voi e per l’Italia. Vi ringrazio di ciò che avete compiuto”.
Furono parole che rimasero però nell’aria. Il 24 settembre 1944, con l’ordine del giorno n. 43, a firma Utili, il C.I.L. veniva definitivamente sciolto.
“Sotto la data di oggi, il Corpo Italiano di Liberazione si scioglie per necessità superiori”, scriveva il Generale Utili. “Non si scioglie, né credo si scioglierà mai nei nostri cuori, il patrimonio comune delle vicende nobili e dure che abbiamo vissuto insieme. Sono cero che noi del C.I.L. ci riconosceremo sempre fratelli e ci tenderemo sempre la mano incontrandoci, comunque la sorte materiale di ognuno possa essere nel futuro diversa e diverso il cammino spirituale di ognuno. Questo è l’ultimo ordine del giorno del Corpo Italiano di Liberazione”.
Con la sua fine, il C.I.L. diede vita a due nuove Grandi Unità a livello divisionale, la “Legnano” e la “Folgore”.
Coloro che vennero restituiti alla vita civile, poiché nei nuovi organici non c’era posto per tutti, avrebbero dovuto diffondere la conoscenza e l’amore per le gesta compiute. Chi trovò collocazione nelle nuove divisioni, avrebbe dovuto portare il lievito di un’esperienza di guerra recente, che saliva come un’offerta dalle ceneri dei tanti e troppi focolari distrutti. Ma non fu così. Frantumato, senza la propria organicità, il rinato Esercito Italiano, cresciuto a poco a poco, dai cinquemila uomini iniziali ad una forza cinque volte più numerosa, finì disperso in mille rivoli, dipendente da questo o da quel comando alleato, un alleato che, sempre diffidente, non vedeva di buon occhio quel minuscolo esercito battere la propria bandiera tricolore ed operare in autonomia. Gli anglo-americani non compresero mai, in realtà, il cedimento immediato e subitaneo dell’Italia su tutti i fronti e, meno che mai, riuscirono a capire perché quel paese così debole e disorganizzato fosse entrato in guerra a fianco di una potenza che, per più di cinque anni, non aveva fatto altro che prepararsi al conflitto. L’armistizio, la fuga di Vittorio Emanuele III e del suo seguito istituzionale, prima a Brindisi poi a Salerno, la dissoluzione morale e materiale della popolazione, li lasciarono perplessi, quando non sprezzanti, sia pure con atteggiamenti più da “gentlemen” di quelli palesati dai tedeschi.
I combattenti del C.I.L. vennero ignorati, e fu la cosa più grave, anche dal fantomatico Governo del Regno del Sud, guardati, se mai, con commiserazione e denigrati dalla propaganda di quella parte di nazione non ancora libera.
I soldati del Primo Raggruppamento Motorizzato, diventato poi Corpo Italiano di Liberazione, furono la prima “forza armata regolare” della nuova Italia. Meritavano davvero tale sorte?
In questo nostro lungo dopoguerra, sarebbe stato giusto rievocare più spesso, al di là di quelle vicende che la demagogia ancora oggi impone di ricordare, anche altri fatti d’arme italiani del secondo conflitto mondiale, per onorare il sacrificio di chi ha combattuto, di chi ha affrontato ogni traversia, non per conquistare territori nemici, ma per riconquistare la propria Patria.