Il ferro alla patria e la curiosa Guerra dei Coppini
Dalle liti domestiche alla spoliazione delle città per finanziare il conflitto.
Con l’avvento dell’emergenza pandemica, vero e proprio disastro mondiale che ancora tiene in ginocchio buona parte dell’Umanità, molti italiani hanno pensato al peggio dimenticando, però, che in passato il nostro Paese ne ha davvero passate di tutti i colori. Pensiamo ad esempio al ventennio, periodo non proprio semplice della nostra storia interna ed europea, risultato delle ceneri sociali ed economiche della Prima guerra mondiale, durante il quale il popolo si abituò a sopportare alla meno peggio tante norme che, basandosi sul forte richiamo ai valori del sacrificio, costringevano i cittadini a privarsi di qualcosa. Senza voler citare da subito le tragedie della Seconda guerra mondiale, possiamo ricordare le rinunce commerciali e alimentari, condensate ironicamente nel surrogato di caffè, la cosiddetta ciofeca, risolte o giustificate mediaticamente con gli orti di guerra, una trovata legislativa che poco prima del conflitto miscelò paesaggi campestri e urbani, imponendo la coltura di grano e patate in aiuole, giardini reali, parchi e perfino margini di grandi strade pubbliche.
In previsione della dichiarazione di guerra alla Francia, poi, per le nostre famiglie arrivarono anche norme per recuperare i carenti minerali ferrosi necessari alla costruzione di armi e mezzi per le forze armate. Il 3 aprile del 1940 nasceva, quindi, un disegno di legge per la «…raccolta delle cancellate di ferro e di altro metallo…» grazie al quale iniziarono presto a sparire non solo alcuni beni pubblici, tra cui gli ornamenti urbani e quelli di sicurezza, ma anche beni privati che caratterizzavano e ancora oggi caratterizzano le strade e le architetture delle nostre città. Inoltre, alcuni capoluoghi si lanciarono in competizioni politiche ostentando l’adesione alle richieste del regime, con Napoli che vide addirittura in prima fila il solerte Sindacato dei proprietari di fabbricati chiedere la rimozione di quelle «…etichette di ottone apposte alle porte delle abitazioni private e delle targhe, talora di formato molto grande, con l’indicazione di ditte commerciali, industriali, o recanti nomi e specialità dei vari professionisti…», quasi incolpando moralmente i cittadini per l’inutile uso di preziose risorse negli androni dei palazzi che, sempre secondo questo accorato appello, erano «…addirittura cosparsi di queste targhe, costituendo un vero e proprio spreco di metallo…». In poco tempo, quasi d’incanto, molti centri urbani divennero detentori di cartellonistica cartacea, al massimo lignea, con sparizioni di maniglie, corrimano, picchiotti e tutta una serie di indispensabili arredi cittadini cui normalmente si fa poco caso.
Ma come oggi ci si lamenta di chiusure, divieti e segregazioni, con alcune categorie che giustamente iniziano a dissentire in modo più o meno duro o furbesco alle norme pandemiche, qualche settimana prima dell’entrata in guerra, il 10 giugno del ’40, la Patria ebbe la pessima idea di chiamare in causa addirittura le casalinghe! Sì, le nostre nonne entrarono nel girone infernale dell’economia di guerra, donne che senza quasi rendersene conto si ritrovarono a dover donare perfino casseruole e pentole di rame, indispensabile corredo domestico per le attività quotidiane, ancor più necessario se si pensa che le mamme italiane, in quel periodo, già ne inventavano una più del diavolo per cucinare un decente pasto caldo alla famiglia. Ma se per le tanto fastidiose targhe in ottone (per il Sindacato dei proprietari di fabbricati ovviamente!) degli eleganti androni dei palazzi partenopei fu almeno prevista una ricompensa morale, un bel cartoncino che avrebbe sostituito il metallo sacrificato alle ragioni storiche di inizio ‘900, nelle case comuni iniziò la curiosa Guerra dei coppini con sotterramenti segreti di posate, pentole e attrezzi domestici, generando, manco fosse presente un tradimento di coppia, delle furibonde liti coniugali. Una vera guerra interna, potremmo ironicamente definirla civile, con posate e pentole interrate nei grandi vasi delle piante ornamentali o, più furbamente e in complicità condominiale, nelle aiuole delle corti interne degli antichi palazzi napoletani. Uno scontro tra ferventi papà fascisti disponibili alle solenni ragioni di Stato e indomabili madri sensibili alle ancor più solenni ragioni di famiglia. Inutile dire che nemmeno il regime riuscì a scardinare la tenacia femminile, con una veloce bandiera bianca alzata dagli stessi mariti che tanto avevano apprezzato la spoliazione delle città e, successivamente, la chiamata alla responsabilità del popolo. In breve tempo, come un agguato sventato, le signore non furono più costrette a sotterrare i beni di famiglia per sottrarli alla “consegna volontaria”, anche se la guerra, quella vera fatta di bombe e sangue, sarebbe arrivata dopo poche settimane sulle ali degli aerei britannici prima, di quelli americani poi.
In effetti, se ci pensiamo bene, non possiamo dire di averle viste davvero tutte. Nel nostro passato, non propriamente ricco di comodità, sanità e lavoro “bianco”, il Covid avrebbe fatto quasi ridere. A confronto, forse le restrizioni di oggi avrebbero quasi alleviato le pene di alcuni poveri padri che restavano sotto i bombardamenti a lavorare, ma anche delle famiglie che sfollavano di notte con bimbi piccoli, a piedi, senza illuminazione o forse ragionevole speranza di una luce in fondo al tunnel. Furono davvero in molti a non tornare da quella pandemia di fuoco e pallottole. Non tornarono i militari, non tornarono i civili, non tornarono i deportati, non tornarono i malati delle epidemie di fine guerra, non tornarono nemmeno più gli innocenti fucilati delle stragi naziste. Oggi è difficile, certo, ma non dimentichiamo ciò che altri prima di noi furono costretti a superare per sopravvivere.