L’Arcivescovo Battaglia: “A Napoli serve un patto educativo tra generazioni per togliere spazio alla criminalità”
S. E. Mons. Domenico Battaglia, conosciuto anche come Don Mimmo, nasce a Satriano (CZ) il 20 gennaio 1963 e all’età di 25 anni riceve l’ordinazione presbiterale e nell’attività pastorale si interessa prevalentemente delle persone più deboli ed emarginate, tanto da essere definito “prete di strada”. La sua azione sacerdotale, permeata di disponibilità e attenzione verso le persone più fragili e in difficoltà, risulta essere in perfetta sinergia con l’azione apostolica di Papa Francesco e questi il 21 giugno 2916 lo nomina Vescovo della Diocesi di Cerreto Sannita-Telese-Santagata de’ Goti e il 12 dicembre 2020 lo destina alla guida dell’Arcidiocesi di Napoli in sostituzione del Cardinale Crescenzio Sepe, dimissionario per raggiunti limiti di età e per scadenza proroga.
Mons. Battaglia prende possesso canonico dell’Arcidiocesi il 2 febbraio u.s. e in un breve lasso di tempo evidenzia la sua “linea” di condotta episcopale e di guida spirituale della complessa e variegata realtà religiosa, sociale e territoriale dell’Arcidiocesi.
In un’articolata ed esaustiva intervista rilasciata il 4 maggio u.s. al Direttore del quotidiano “IL MATTINO”, Federico Monga, il presule compie un’attenta e profonda analisi sui simboli religiosi in città e sul culto dei morti, sul ruolo e sulla funzione delle Istituzioni e del clero nei confronti della criminalità e non si limita solo alla diagnosi di tali fenomeni ma ne indica anche la prognosi per rendere la città di Napoli e il suo hinterland diocesano terra di legalità, di pace e di libertà, tutti elementi indispensabili per un territorio che vuole vivere, e deve vivere, nel rispetto delle regole, dei valori sani e dei principi di fratellanza, tolleranza e diponibilità verso il “prossimo” come hanno indicato e praticato i discepoli del Cristo Risorto.
L’Arcivescovo, in merito ai “simboli”, l’altarino rimosso dal centro storico di Napoli edificato in memoria di un giovane boss afferma: “(…) Sono nato e vissuto in un territorio bellissimo e ferito come la Calabria, cercando di rimettere vite distrutte dalla droga, il vero business di ogni criminalità organizzata, e so bene che ogni mafia trova i suoi codici di potere e i suoi simboli di dominio del territorio. E’ da questi che bisogna partire, liberando la nostra terra attraverso simboli e codici opposti, iniziando a parlare sempre più attraverso i segni della giustizia, della solidarietà concreta, del camminare insieme”.
E’ ampiamente documentato che Napoli già da prima del Cristianesimo coltivava il culto dei morti e oggi si constata che nella città e nell’hinterland l’edificazione di numerosi altarini e la decorazione di diversi murales in ricordo di persone appartenute alla camorra e in riferimento a tale fenomeno il Presule dichiara “Non posso giudicare le intenzioni di chi le ha costruite ma occorre piuttosto chiederci quale messaggio veicolano. E’ idolatrico ogni messaggio di morte, ogni segno che calpesta l’uomo, ogni simbolo posto per marcare un dominio. E a questi simboli nessuno deve chinarsi. Ci si inginocchia solo dinanzi a Dio e a chi soffre, il resto è idolatria. (…)” e sulle processioni (inchini delle statue) e sulla venerazione dei Santi da parte di chi ha le mani sporche di sangue afferma: “Questi gesti sono spesso frutto di una religiosità senza Vangelo, della credenza in un dio creato a propria immagine e somiglianza che non può essere accostato neanche lontanamente a Gesù di Nazareth e al suo messaggio non violento di amore e fraternità, di pace e salvezza integrale. (…)”
In merito alla situazione di Marano ove in una chiesa da anni erano esposti due quadri di Sante con la dedica in ricordo del capoclan Lorenzo Nuvoletta e che sono stati rimossi per disposizione episcopale e alle statue prelevate da una chiesa e date in affido all’Associazione “Madonna dell’Arco”, gestita dalla suocera di un boss del gruppo camorristico “Alleanza” di Secondigliano e sull’atteggiamento-comportamento del clero in presenza di tali situazioni o situazioni simili, dice: “E’ importante che la nostra parola di preti sia sempre chiara e inequivocabile e che la nostra testimonianza di cristiani sia fedele al Vangelo. Per questo a tutti i preti e a tutti i cristiani chiedo chiarezza di vita e coraggio anche fino al martirio. (…) A Napoli vi sono tantissimi preti che ogni giorno si mettono al servizio della loro comunità e dei territori difficili in cui vivono, spesso unici presidi di solidarietà e di prossimità in quartieri feriti dalla criminalità e dalla corruzione. (…) La Chiesa non può accettare doni macchiati di sangue e offerte dal sapore di morte, ma è piuttosto impegnata nella denuncia costante della corruzione e nella rinuncia chiara ad una comodità e ad una tranquillità che non si addice al messaggio di Gesù che invece ci invita ad essere cercatori di infinito e costruttori di storia”. Per la conversione dei camorristi e per la concessione del perdono il suo pensiero è intriso di carità cristiana e afferma: “La giustizia che conduce alla riconciliazione e alla pace, che non incontra la misericordia non è vera giustizia. Ma solo vendetta. (…) Guai a noi se non tendessimo loro la mano, se non mostrassimo loro che è possibile ricominciare, se non gli offrissimo un’altra possibilità”.
L’Arcivescovo Battaglia è a Napoli solo da pochi mesi e già ha incontrato migliaia di persone e visitati tanti luoghi, pertanto, si è reso conto delle debolezze, della fragilità e della realtà territoriale diocesana e di fronte a tale constatazione afferma: “(…) Se insieme – istituzioni, chiesa, società civile, mondo dell’impresa e del terzo settore – ci mettiamo in ascolto di queste ferite, sostando all’altare delle lacrime dei più deboli, creeremo una cordata sociale capace di far fiorire il deserto. Se passeremo dall’io al noi, se recupereremo quel senso di comunità che è patrimonio ultra-millenario dei napoletani, se saremo capaci di dar vita ad un vero patto educativo per le nuove generazioni non ci sarà spazio per la camorra e il malaffare. Per questo occorre rimboccarsi le maniche e lavorare. Io ci sono, la chiesa napoletana c’è. E siamo pronti a dialogare con tutti e su tutto mettendoci al servizio della comunità, iniziando dagli ultimi”.
Napoli e il suo hinterland hanno proprio bisogno di una visione, di una speranza, di una prospettiva e, allora, coraggio Don Mimmo, la storia e il Creatore della vita le renderanno merito per il suo impegno per sollevare un territorio “difficile” e per la meritoria azione che pone in essere nei confronti dei nostri fratelli più “fragili”.