La tragedia di Alfredino Rampi a Vermicino: il prima e il dopo dell’informazione in Italia
Il 21 e il 28 giugno Sky Cinema racconterà, con una miniserie, la storia tragica di Alfredino Rampi, morto a sei anni nel 1981. In questi giorni, a 40 anni da quel maledetto 11 giugno tutte le televisioni e i giornali hanno ricordato una vicenda che ha sconvolto un intero popolo, ma che ha anche segnato un punto di non ritorno per la televisione, e per l’informazione in generale, nel nostro Paese.
Infatti si può senza dubbio definire la drammatica vicenda di Vermicino come “il prima e il dopo” dell’informazione in Italia.
Tutto ebbe inizio la sera dell’undici giugno dell’81 quando il Tg3 riportò nell’edizione serale, la notizia di un bambino di 6 anni caduto in un pozzo artesiano, largo appena 30 cm e profondo 60 metri, a Vermicino, paesino fino a quel momento sconosciuto fra Roma e Frascati. La mattina seguente la vicenda doveva essere seguita come di solito avveniva nei Tg: inviati sul luogo, interviste ed eventuali collegamenti con le varie edizioni dei telegiornali. Invece no…il giorno dopo la Rai iniziò una diretta no stop di 36 ore (interrotta solo dalle varie edizioni dei tg) sul primo e sul secondo canale dell’azienda, addirittura a reti unificate. La diretta tenne incollati milioni di italiani davanti ai televisori, raggiungendo un ascolto medio di 28 milioni di spettatori e arrivando fino ad una punta di 28,6.
C’erano già state maratone televisive, come vengono definite oggi, in quei mesi come ad esempio quella sull’attentato al Papa avvenuto solo qualche settimana prima, o quella relativa all’attentato a Ronald Reagan avvenuto a marzo o come quelle del terremoto dell’Irpinia a novembre dell’anno precedente, ma la tragedia di Vermicino ha cambiato tutto dando inizio alla tv del dolore, un “fare televisione” con spettacolarizzazione delle sofferenze, una sorta di “reality” moderno che nulla ha lasciato all’immaginario, nemmeno la morte “in diretta” di un bambino.
Il drammatico racconto televisivo includeva l’intervento dei Vigili del Fuoco, degli speleologi, dei volontari (non preparati perché la Protezione Civile sarebbe nata solo l’anno successivo), delle Autorità intervenute come il Presidente della Repubblica Sandro Pertini che sostò per ben 16 ore ai bordi del pozzo per seguire la vicenda e addirittura di nani chiamati per essere calati nella cavità artesiana che aveva una apertura strettissima. La diretta ha anche raccontato nei dettagli il lavoro dei tecnici intenti a scavare un pozzo parallelo da collegare a quello che aveva inghiottito il piccolo e che invece per colpa delle vibrazioni causate dalle trivelle di perforazione fece scivolare il piccolo Alfredino ancora più giù. E ha fatto sentire all’Italia intera, attraverso un microfono calato nel pozzo, la voce sempre più flebile del bimbo terrorizzato, al buio e nel fango, che chiamava la sua mamma, che disperata cercava di rassicuralo. Quel microfono doveva servire per mettere in contatto i soccorritori con Alfredino, ma alla fine è diventato il simbolo della “peggio tv”.
La Rai, in quegli anni, era l’unica emittente che poteva trasmettere in diretta e forse ha cercato “di sfruttare” la vicenda del piccolo Rampi per affermare il suo ruolo nel mondo dei canali televisivi e sicuramente sperava in un lieto fine poiché era di un salvataggio plateale in diretta quello di cui voleva fregiarsi, ma purtroppo per il piccolo Alfredino Rampi non è andata così.
Dalla tragica vicenda di Vermicino in poi, molti programmi televisivi hanno cominciato ad interessarsi a storie di dolore da raccontare in televisione, convinti che solo in quel modo si potesse attirare il pubblico e tenerlo incollato davanti agli schermi aumentando l’ascolto. E la curiosità morbosa più che la vera partecipazione al dolore e alle sfortune degli altri, ha continuato ad alimentare quel tipo di televisione fino ad arrivare ai nostri giorni con forme sempre più estreme che creano “circhi mediatici” e trasformano in personaggi i protagonisti delle storie che vengono raccontate, senza pensare che molto spesso le vicende private piene di sofferenze dovrebbero restare tali. Al giornalista resta il compito di raccontare la realtà dei fatti senza però dimenticare un certo codice etico e la responsabilità di una corretta informazione che non dovrebbe sfociare mai nella ricerca del sensazionalismo a dispetto di tutto e tutti. Anche e soprattutto della vita di un bimbo di sei anni caduto in un pozzo.