Quella croce “diversa”
Di Ponzio Pilato, ricordato come martire dalla Chiesa Copta e come santo da quella Etiope, “crocifisso” dal cattolicesimo perché “crocifissore” di Cristo, citato, di sfuggita, nelle Sacre Scritture, ebbene, di lui ben poco è giunto fino a noi. Il suo ed il nome di Tiberio Claudio Nerone, che dopo l’adozione di Ottaviano Augusto mutò in Tiberio Giulio Cesare, furono legati, sebbene in maniera assai diversa, proprio per il tormentato processo contro Gesù di Nazareth, per quella inverosimile condanna e per quella morte straordinaria. Il primo, in qualità di Prefetto (e non di Procuratore, secondo un’iscrizione rinvenuta nel 1961) della Giudea, il secondo, in virtù della “auctoritas” ereditata dal padre, fondatore dell’Imperium Romanum.
Pilato non era un uomo qualsiasi. Apparteneva alla gens Pontia, che aveva dato allo Stato funzionari e soldati di elevato valore e prestigio, come Caio Ponzio, il vincitore delle Forche Caudine, Ponzio Telesino morto in combattimento contro Silla e Tito Ponzio, valoroso militare e grande amico di Cesare.
Quando fu inviato in quella provincia a rappresentarvi l’autorità di occupazione, la sua scelta non fu casuale. Tiberio, è risaputo, non lasciava nulla al caso e vigilava sui confini dell’Impero, con chiarezza di vedute e pugno fermo. Il prestigioso incarico, tuttavia, fu anche motivato da una potente raccomandazione, fatta al Sovrano dall’uomo del momento, dall’onnipotente Prefetto del Pretorio, Lucio Elio Seiano che, accecato poi dal potere, divenuto ben presto in un despota, venne deferito al Senato e condannato a morte.
Giunto sul posto, quale quinto Prefetto, Ponzio Pilato, che una lettera del re Erode Agrippa I (successore di Erode Antipa) descriveva come “implacabile, senza riguardi, ostinato”, ebbe subito cura di redigere un programma d’azione, sulla cui esecuzione, per motivi gerarchici, doveva rendere conto solo al Governatore della Siria, suo superiore diretto, Quintilio Varo. Questi, che era al comando di tre Legioni, la III Gallica, la IV Ferrata e la X Fretensis, sarà ricordato dalla storia come un uomo rigido, scrupoloso difensore degli interessi di Roma e severissimo giudice nei territori posti sotto la sua giurisdizione. Infatti, quando, per una cruenta lotta interna, tra i figli di Erode il Grande, Archelao, Erode Antipa e Filippo, eredi al trono, si scatenarono sollevazioni e sconvolgimenti, per sedare disordini, il Governatore non esitò a far crocifiggere duemila giudei davanti alle mura di Gerusalemme. Una lunghissima fila di croci, lungo i due lati della via maestra, per rammentare a tutti chi comandava da quelle parti. Roma, del resto, non permetteva che la sicurezza dello Stato potesse essere incrinata e la sua supremazia scossa da sussulti e rivolte. Anche se, con una saggia politica, prevedeva, nei territori occupati, una certa libertà e rispetto dei costumi. Già Cesare ed Ottaviano avevano concesso agli israeliti l’esenzione dal servizio militare e l’indipendenza religiosa.
Tornando a Ponzio Pilato, egli trovò in quelle terre un popolo combattivo, inassimilabile, tetragono, chiuso nei propri privilegi, sempre proiettato a far sentire la distanza che lo divideva dai dominatori del mondo e da ogni altra razza umana. Ma, nonostante ciò, il Praefectus volle fortemente e testardamente tentare l’impervia strada dell’assimilazione, dell’integrazione tout court. Vari complicati fattori politici lo influenzarono nella difficile conduzione di quella regione. Certamente, il desiderio di governare bene, nel nome e per conto di Roma, costituì il principale scopo della sua missione. Era giunto dalla Capitale, pieno d’animo della romanitas, conscio di rappresentare la maggiore potenza del mondo civile, pregno di diritti, scaturiti dall’esercizio del potere in terra di conquista. Come già accennato, la saggezza dell’Urbe aveva sempre rispettato costumi e religioni delle popolazioni sottomesse, ma aveva, in pari tempo, preteso ed imposto fedeltà, rispetto sincero e pieno riconoscimento dei diritti dell’Imperatore. Così, secondo quello schema, dovunque si era realizzata la piena fusione delle varie ed eterogenee genti dell’Impero. Era altresì fermamente convinto che il raggiungimento di quell’obbiettivo, tanto più in un’area così particolare e difficile, gli avrebbe concesso il vivo apprezzamento dell’Imperatore, dotato della sensibilità adeguata per riconoscere la valentia dei collaboratori e la scrupolosità del loro lavoro. Un regnante che, prima di ascendere al trono augusteo, era stato un valoroso generale ed un vittorioso stratega e che aveva dimostrato eccellenti capacità di amministratore, burocrate, finanziere ed esperto in materia fiscale. La riscossione dei tributi, basata sull’equa ripartizione delle imposte, sì da “tosare” i contribuenti senza “scannarli”, frutto di una grande intuizione, fu il suo cavallo di battaglia.
Pilato sapeva che Tiberio seguiva, vedeva, notava, commentava tutto, anche se la sua stabile dimora era ormai, dall’anno 26 a.C., ubicata a Capri, presso Villa Jovis, allora chiamata “Apragopolis” (città del dolce far niente), per l’esistenza oziosa dei suoi cortigiani, una delle dodici regge di cui disponeva nell’isola. Animato, dunque, lì in Giudea, da buoni propositi e non certamente estraneo al concetto ambizioso che, dopo l’espletamento di quell’incarico, il suo curriculum avrebbe potuto mirare a vette più eccelse, il Romano scivolò, sulla classica buccia di banana ed il tragico episodio di Cristo fu la fine dei suoi sogni e la conclusione della sua carriera.
Tiberio, a Capri, alternava, alla vita ufficiale di un sovrano potente, gaie riunioni, simposi tra letterati, tra filosofi ed amici, intrattenendosi in passeggiate, lungo quella zona, la “ambulatio”, che oggi è conosciuta come “il Salto di Tiberio”.
Fu appunto in una di tali comuni giornate, che giunsero i corrieri con la raccolta settimanale degli “acta”, rapporti dei territori romani occupati. Si trattava di relazioni e note diplomatiche, redatte da governatori, legati, prefetti, consoli, sovrani e vassalli. Uno di questi, pare che avesse particolarmente attirato l’attenzione del monarca, quello del Prefetto della Giudea. Ponzio Pilato riferiva che un certo Gesù si era reso colpevole di alcuni reati per i quali gli era stata inflitta la pena capitale, riservata ai casi previsti. Uno dei tanti processi che nelle terre di un impero sconfinato, composto da milioni di individui multietnici, doveva essere, peraltro, un evento usuale. Così come usuale ed automatico, doveva essere il solo riferire all’Imperatore, in quanto chi deteneva l’imperium, aveva tra le altre attribuzioni, quella di occuparsi della sicurezza, dell’amministrazione pubblica e della polizia locale. In realtà, in quella meravigliosa organizzazione, nulla sfuggiva al potere centrale. Al tempo di Augusto e della consorte Livia (madre di Tiberio), ad esempio, si intrattenevano rapporti stetti con i sovrani alleati o vassalli, come provato da alcuni ritrovamenti di missive ufficiali. Ed un secolo più tardi, sotto Traiano, il Governatore della Bitinia, Plinio il Giovane, che amava ragguagliare l’Imperatore su ogni piccolo particolare riguardante il territorio di sua pertinenza, chiedeva sostegno, soprattutto, nel comportamento da adottare verso il dilagante atteggiamento di coloro che si definivano “Cristiani”. Prudentemente, Traiano rispose di non procedere a persecuzione, ma semplicemente condannare coloro che osavano contro lo Stato.
Quali, dunque, i capi di accusa che il Prefetto della Giudea avrebbe potuto elencare, nel caso del Nazareno? Evidentemente l’episodio era irrilevante se giudicato con l’ottica del sovrano, lontano migliaia di chilometri, all’oscuro della reale situazione di ogni terra dominata. Ma si può arguire che nel rapporto del prefetto comparissero tutti gli elementi idonei per ottenere l’approvazione (anche se postuma) del principe. Era l’epoca in cui Roma aveva instaurato una politica antiebraica ed un giudeo condannato, anche per reati di non grave entità, aveva poche possibilità di cavarsela. Eppure Tiberio fu incuriosito, infastidito, intimamente spaventato da quei fatti. Ponzio Pilato, com’è ben noto, all’inizio del processo non era affatto propenso per una condanna capitale di Cristo. Poteva far leva, nel suo rapporto, su vari elementi importanti e significativi. Per prima cosa, evidenziare la necessità di salvaguardare l’ordine pubblico, spesso compromesso da riunioni, predicazioni, assemblee che potevano costituire pericolo per stabilità della regione. In secondo luogo, far risaltare la convenienza di frenare certi aneliti di indipendenza che serpeggiavano e, soprattutto, di impedire che, nelle predicazioni, fossero evocate espressioni, quali l’umiltà, la carità, l’uguaglianza e la fratellanza, che non si confacevano ad un popolo soggiogato, tenuto a pagar forti tributi, a rispettare Roma e sopportare, oltre il giogo straniero, anche la superiorità degli occupanti. Va poi aggiunto che Gesù ed i suoi seguaci provenivano da una regione, la Galilea, terra di rivoltosi, che aveva dato parecchio filo da torcere ai romani, i cui abitanti, di conseguenza, venivano guardati con disprezzo e timore. Del resto, le beghe locali, il potere dei sacerdoti, le caste e gli interessi dei potenti, non potevano non far riflettere Ponzio Pilato sull’opportunità di “lavarsi le mani”, per qualche episodio che, a suo giudizio, non riguardava direttamente Roma, le sue leggi, i suoi immediati interessi, considerando che la vita di un non-romano, a quell’epoca, valeva ben poco e quindi la frase “Ibis ad crucem” (andrai sulla croce), rivolta a quell’accusato, rientrava probabilmente nell’ordinario. Cercò varie vie per salvarlo dalla morte, ma finì col cedere alle pressioni dei Giudei, temendo un ricorso a Roma, dove arrivarono tante strane voci.
Allora, quali le colpe di Pilato? Egli non vide in quell’uomo, solo ed indifeso, il paladino di una nuova concezione religiosa e non seppe riconoscere in quella croce, una differente dalle altre migliaia fino ad allora usate, una croce che avrebbe condizionato i secoli successivi, con il divino grande messaggio di giustizia, di pace, di fratellanza.
Ebbe sì lo scrupolo del funzionario, ma non la visione lungimirante della storia. Era quella una croce diversa, ma Ponzio Pilato non lo capì.