1960, un anno ricco di eventi
Fu, quello, un anno ricco di eventi. John Fitzgerald Kennedy vinse le elezioni, superando di pochissimi voti il rivale repubblicano Richard Nixon, e divenne il 35° Presidente degli Stati Uniti d’America.
In Francia, Charles De Gaulle incominciò ad accarezzare l’idea di concedere all’Algeria la propria indipendenza (sancita definitivamente nel 1962).
A Santo Domingo, tre sorelle, Patria, Minerva e Maria Teresa Mirabal, accanite oppositrici del dittatore Rafael Leónidas Trujillo, denominato “El Benefactor”, vennero assassinate a causa della loro dissidenza.
Il mondo intero imparò a conoscere e ad amare quattro giovani musicisti di Liverpool, i “Beatles”, sognando, ballando ed impazzendo sulle note della loro straordinarie canzoni. Ed il mondo intero dovette anche dare l’estremo triste addio al divo hollywoodiano Clark Gable.
In Italia, venne trasmessa la prima puntata del programma giornaliero “Non è mai troppo tardi”, un corso di istruzione popolare per il recupero dell’adulto analfabeta (durato otto anni), condotto da Alberto Manzi, in collaborazione con il Ministero della Pubblica Istruzione.
Nel turbinio di questi avvenimenti, una bambina di sei anni, Ruby Nell Bridges, il 14 novembre 1960, iniziò la sua lotta personale contro il razzismo, cambiando per sempre il corso della storia, con quella celebre immagine che la ritraeva, vestita di tutto punto, elegante, un fiocco in testa, le calzette bianche e le scarpe lucide, mentre veniva accompagnata da alcuni agenti federali, all’uscita della “William Frantz Elementary School” di New Orleans, in Louisiana.
Era quello il suo primo giorno di scuola, un giorno che sarebbe dovuto essere speciale ed importante, come sempre per ogni bambino della terra. Invece, per lei fu il più frustrante, il più ostile, il più drammatico in assoluto, perché vissuto in un momento storico e, soprattutto, in un area degli Stati Uniti che, per un afroamericano, non prevedeva tolleranza, rispetto ed apprezzamento di tutte le differenze, concetti imprigionati in un insormontabile tabù.
Ruby, che vive ancora oggi a New Orleans con il marito, Malcom Hall, e con i quattro figli, all’epoca dei fatti, era di recente arrivata da Tylerton, in Mississippi, dove è nata l’8 settembre 1954. Fu una dei sei bambini di colore ad aver superato il test di ammissione alla scuola per bianchi William Frantz. Il padre, Abon, era inizialmente restio ad accettare la cosa, mentre la madre, Lucille, voleva per lei un’educazione migliore, più importante, spinta anche dal desiderio di contribuire a “fare un passo in avanti….per tutti i bambini afroamericani (lett.)”. Alla fine, riuscì a convincere il marito ad acconsentire. Nel momento di incominciare, due dei sei decisero di rimanere al loro vecchio istituto e gli altri tre furono ammessi alla “McDonogh School”, divenendo famosi come “quelli della McDonogh”. Solo Ruby fu determinata ad entrare in quella nuova scuola, che fino ad allora aveva accolto solo alunni bianchi. Alla notizia dell’accettazione, tutti genitori ritirarono i propri figli ed ogni insegnante si rifiutò di farle lezione.
In quel suo primo giorno, quella scolaretta di colore non trovò nessuno ad accoglierla in classe, mentre al di fuori dell’edificio, ad attenderne l’uscita, era presente una grande folla di persone che si accalcava, gesticolava, urlava, minacciava e gettava oggetti. Per rientrare a casa, lei e la madre, dovettero essere scortate da quattro guardie federali; la cosa andò avanti per tutta la durata del primo anno scolastico.
La famiglia pagò a caro prezzo la decisione di aver voluto ostinatamente iscrivere la bambina ad un istituto di soli “bianchi”. Abon Bridges perse il lavoro, i negozianti non vollero più vendere, a loro, i propri prodotti ed i nonni, che erano mezzadri in Mississippi, furono espropriati dalla loro terra. Con incredibile tenacia, Ruby non si arrese, nemmeno quando rischiò di essere avvelenata con il cibo della mensa. Continuò imperterrita a frequentare, godendo del solo aiuto di una maestra, Barbara Henry, originaria di Boston, la quale si propose di seguirla e di accompagnarla negli studi. Per oltre un anno, la donna insegnò in un’aula composta da una sola alunna e lo fece con stupefacente professionalità, come se avesse avuto davanti a sé un’intera classe. Molto tempo dopo, un certo Charles Burks, uno degli uomini della scorta, disse con trasparente commozione: “Ha dimostrato molto coraggio. Non ha mai né pianto, né piagnucolato. Ha marciato come un piccolo soldato e siamo stati tutti molto orgogliosi di lei”.
Al rientro dalle vacanze di Natale, però, Ruby incominciò a dare segni di stress, a non dormire la notte assalita da incubi e rifiutandosi, per alcuni mesi, di mangiare in classe, in quel posto così tristemente deserto. Robert Coles, uno psicologo, famoso in città, si offrì di prenderla in cura e di assisterla gratuitamente.
Le cose cambiarono solo al secondo anno. La signorina Henry rientrò a Boston, ma l’aula incominciò a riempirsi di altri bambini e non vi fu più bisogno di una scorta. Quell’orribile anno poté essere messo alle spalle e, piano piano, divenne solo un brutto ricordo. Il signor Bridges, peraltro, ottenne un nuovo lavoro da un vicino di casa.
Ruby, finite le elementari ed il liceo, frequentò il college. Dopo un impiego, come agente di viaggio, presso l’American Express, nel 1984 si sposò e, con la nascita del primo dei quattro figli, decise di dedicarsi esclusivamente alla famiglia. Nel 1999 creò la “Ruby Bridges Foundation”, della quale è tuttora Presidente, allo scopo di continuare a promuovere gli inossidabili valori contro il razzismo e la segregazione, a favore di un’educazione uguale per tutti. Seguirono, per lei, una lunga serie di riconoscimenti, concessi anche dai Presidenti Bill Clinton e Barack Obama. Nel 2014, le fu dedicata una statua, collocata nel cortile principale della “William Frantz Elementary School”, da dove la sua battaglia aveva avuto inizio.
Una nota curiosa. Ruby era già stata alla Casa Bianca. Accadde nel 2011, in occasione dell’esposizione del famoso quadro, intitolato “The Problem We All Live With”, dipinto da Norman Rockwell nel 1963 e comparso, l’anno successivo, sulla copertina della celebre rivista “Look”. Protagonista, al centro dell’opera provocatoria che voleva sollevare l’annoso dibattuto problema, ancora oggi molto caldo, della segregazione razziale negli Stati Uniti, appare proprio lei, bambina, che cammina scortata da uomini dei quali non compaiono le teste, lungo un muro imbrattato da tracce di pomodori lanciati e dalla sbiadita scritta “nigger”. Durante quella visita, il Presidente Obama le confessò pubblicamente: “Penso sia giusto dire che se non fosse stato per voi ragazzi, io non sarei qui oggi”.