Eroi inconsapevoli
Era un incrociatore della U.S. Navy e si guadagnò un posto nella storia, a seguito delle tragiche vicende legate al suo affondamento. Nel luglio del 1945 gli venne assegnata una missione “top secret”, denominata “Bronx Shipment Operation”. Doveva trasportare, in un contenitore foderato di piombo, custodito anonimamente nella cabina riservata all’ammiraglio, quando presente a bordo, il meccanismo di innesco di una nuova super arma segreta che, secondo la leadership governativa, avrebbe sicuramente garantito una definitiva svolta alla fine della guerra, non senza lanciare, peraltro, un ultimo chiaro messaggio alla fragile ed effimera alleanza con il regime sovietico. Quel carico tanto letale, era costituito da elementi fondamentali per l’assemblaggio del primo ordigno atomico, in codice “Little Boy”, che sarebbe poi esploso il 6 agosto, sulla città giapponese di Hiroshima.
L’“USS Indianapolis”, questo il nome, aveva iniziato la sua breve carriera il 15 novembre 1932. Apparteneva alla Classe Portland, un gruppo di incrociatori pesanti,
studiati e sviluppati per la Marina Militare. Ne furono costruiti due, perfettamente identici. Come il gemello, “USS Portland”, aveva una lunghezza di 186 metri ed una stazza di 9800 tonnellate. Alimentati da otto caldaie, i due motori imprimevano allo scafo una potenza che gli consentiva di superare i 32 nodi di velocità. Il suo armamento era costituito da 9 cannoni da 203mm, da 8 cannoni da 127mm e da 8 mitragliere da 12,7mm. Poteva anche trasportare 2 idrovolanti del tipo “OS2U Kingfisher”.
Pochi giorni dopo aver scaricato quella “merce segreta”, della quale probabilmente nessuno a bordo ne conobbe mai la consistenza, a Tinian, isola delle Marianne che ospitava una base di bombardieri statunitensi B-29, l’Indianapolis salpò alla volta di Leyte, nell’Arcipelago delle Filippine, per ricongiungersi alla Task Force 95.7 dell’Ammiraglio McCormick, impegnata in quelle acque ancora battute dai sommergibili giapponesi.
Sarebbe dovuta essere una normale missione di routine, una delle tante. Si trasformò, invece, nella più grande tragedia navale dell’intero conflitto e nella più imponente perdita di vite umane, che abbia mai colpito la Marina degli Stati Uniti. Il 30 luglio, nel buio pesto di una notte senza luna, cadde preda del periscopio del sottomarino nipponico “I-58”, Comandato dal Capitano Mochitsura Hashimoto, e di due dei suoi sei siluri lanciati. In quei dodici minuti di fuoco e di caos, scomparvero, con la nave, risucchiati dalle nere acque, 330 membri dell’equipaggio, mentre gli altri 865, gettatisi in mare, rimasero alla deriva, soli nello sconfinato Oceano Pacifico, aggrappati ad ogni oggetto galleggiante e, soprattutto, aggrappati alla vita come meglio potevano. Nei successivi sette giorni, in attesa dei soccorsi che giunsero solo l’8 agosto, senz’acqua né cibo, quei naufraghi combatterono contro gli elementi e contro i famelici squali. Molti morirono, per la letale combinazione di esposizione al sole, disidratazione, ipotermia, sete, fame e dissanguamento. Dei 1.195 marinai e marines a bordo, solo 316 sopravvissero, contro ogni previsione. I loro racconti, pubblicati dal Naval Center of the U.S. Department of the Navy, descrissero quei momenti drammatici. In tanti impazzirono, ustionati dai raggi solari, dopo aver bevuto acqua di mare. Centinaia di squali li circondarono, attaccandoli in una mattanza senza fine. Cosa comprensibile, in quanto molti di loro erano morti per le ferite aperte e gli squali potevano percepire il sangue nell’acqua. La disperazione nel sentirsi abbandonati sotto quel sole implacabile, alla fine prese il sopravvento. Gus Kay, uno dei pochi superstiti, nato a Chicago nel 1926 e morto nella vicina Contea di Cook nel 2007, in un’intervista ricordò come i pescecani, si avvicinavano a più riprese, nuotando in cerchio per ore ed ore, catapultandosi continuamente fuori dall’acqua. Nonostante i loro vari ed esausti tentativi di tenerli lontani, quegli animali si gettavano addirittura sulle scialuppe, strappando gambe e braccia, sia ai vivi che ai morti.
E pensare che l’incrociatore era scampato all’attacco giapponese su Pearl Harbor, perché quel drammatico 7 dicembre 1941 era impegnato in un’esercitazione nei pressi di Johnston Island, vicino alle Hawaii. Con l’entrata in guerra degli Stati Uniti, il 20 febbraio 1942, partecipò al primo combattimento contro le forze aeronavali imperiali nipponiche, a sud di Rabaul, in Nuova Britannia, ed alle principali operazioni nel Pacifico, dalla battaglia di Tarawa a quella di Peleliu, fino a quelle finali di Iwo Jima ed Okinawa, divenendo anche sede del “Commander-in-Chief” della V Flotta, Ammiraglio Raymond Ames Spruance .
L’Indianapolis era guidato da un esperto e valido marinaio, il Capitano di Vascello Charles B. McVay. La sua memoria è tornata alla ribalta, con l’arrivo, alle sale cinematografiche, nel 2016, del film “USS Indianapolis: Men of Courage”.
Per lui, che riuscì a rimanere vivo ed a tornare, iniziò, in patria, un ulteriore calvario. La Corte Marziale lo processò come responsabile della perdita della sua nave. Era la prima volta che lo JAG (Judge Advocate General) inquisiva un ufficiale a causa di un affondamento, in azione di combattimento, ad opera del nemico. Fu l’unico, tra i settecento comandanti di unità statunitensi affondate durante il conflitto, giudicato colpevole di aver [lett.] “messo a rischio la nave rinunciando a zigzagare”, manovra normalmente utilizzata per sfuggire agli attacchi dei siluri nemici. In realtà, la Marina voleva solamente coprire ed insabbiare le proprie colpe. Aveva fatto navigare l’incrociatore senza una adeguata scorta, peraltro fortemente richiesta e respinta, aveva mosso le ricerche dei naufraghi con cinque giorni di ritardo e, soprattutto, non aveva informato McVay che sulla rotta per lui prevista era stata già registrata un’attività ostile.
Solo nel 2001, il Congresso degli Stati Uniti lo scagionò definitivamente, approvando, e decretando, che sul suo stato di servizio dovesse essere riportata “l’assoluta non responsabilità nell’evento”. Troppo tardi. Il 6 novembre 1968, nel suo giardino, a Litchfield, nel Connecticut, si era sparato un colpo di pistola alla tempia. L’epilogo di una triste storia che coinvolse inconsapevoli eroi, vittime sì di una guerra ma, soprattutto, dell’ignavia e dell’incapacità di alcuni.
L’allora Segretario della Difesa, William Sebastian Cohen, nella sua dichiarazione conclusiva disse: ”Il mio punto di vista, in questa vicenda, è che tutti i millecentonovantasei uomini a bordo della “US Indianapolis”, il 30 luglio 1945, erano eroi molto prima che lo I-58 lanciasse i suoi sei siluri e quegli uomini coraggiosi meritano tutti di essere ricordati in questo modo”.
La storia racconta che il 15 agosto 1945, Hirohito, 124° Imperatore del Giappone, si rivolse per la prima volta al suo popolo dichiarando la fine dei combattimenti. Questo avveniva solo due settimane dopo.
Ma si sa, al Fato non ci si oppone!