Una “valanga” americana
La sua non è stata una storia importante e di certo lei non ha mai eguagliato le prodezze sportive della croata Janica Kostelić, né dell’austriaca Anne Marie Pröll, o della svizzera Verena Schneider, né tanto meno quelle, più recenti, della statunitense Lindsey Vonn. La sua fama, perché di fama comunque si parlò, non attraversò mai l’oceano e non le consentì di essere una protagonista internazionale del mondo dello sci agonistico.
Però, Gretchen Kunigk, che da sposata acquisì e mantenne sempre il cognome di Fraser, ha un posto d’onore negli annali sportivi, per essere stata la prima americana a vincere una Medaglia d’Oro Olimpica, nello sci. Era nata a Tacoma, nello Stato americano di Washington, una città vicinissima al Parco Nazionale del Mount Rainier, l’11 febbraio 1919.
Appassionata di montagna, si era, fin da piccola, avvicinata a quello sport, impegnandosi con costante tenacia. Imparò sulle piste perennemente innevate, che si snodavano, ad altissima quota, lungo gli impervi pendii dei versanti sud della catena montuosa del Rainier, chiamata, allora come ora, dagli abitanti delle località vicine, per un’inquietante presenza di 4392 metri di altezza, semplicemente “The Mountain”.
Si era qualificata per i Giochi Olimpici Invernali di Sapporo, in Giappone, nel 1940, ma furono cancellati a causa dei prevedibili ed inevitabili venti di guerra che, proprio quell’anno, incominciarono a spirare consistenti. Quando, il marito, Don Fraser, a sua volta sciatore alpino di alto livello, che aveva gareggiato in quelle di Garmisch-Partenkirchen, in Germania nel 1936 e che lei aveva sposato nel gennaio del 1941, dovette partire per il fronte europeo, Gretchen trascorse quella solitudine familiare, gestendo corsi di sci improntati alla riabilitazione dei soldati, reduci per le ferite e le menomazioni riportate. Quell’attività, gravosa ed esaltante al tempo stesso, le consentì di mantenersi costantemente in allenamento, alimentando, se mai ce ne fosse stato bisogno, la straripante passione ed il grande amore per quella disciplina sportiva.
Nel momento in cui arrivarono le Olimpiadi del 1948, a St. Moritz, la Fraser si sentì pronta e carica di entusiasmo, anche se la formazione femminile americana di sci, ricostituita subito dopo la fine del conflitto mondiale, non veniva considerata, sia dall’opinione pubblica che dal comitato olimpico nazionale, una concreta realtà agonistica. “In America, nessuno parlava di una vera e propria squadra, che fosse all’altezza del massimo evento sportivo mondiale. Immaginate che, quando siamo partite per la Svizzera, non avevano nemmeno un allenatore”, confidò una volta, Gretchen.
Infatti lì le ragazze si dovettero adeguare ad usufruire, alternandosi nelle attività, del preparatore tecnico della compagine maschile, la quale, peraltro, non vedeva affatto di buon occhio quella promiscua ammucchiata. Secondo quanto raccontò la Fraser, i ragazzi si comportavano con prevaricazione, come se loro non esistessero, senza rispettare alcuna turnazione e agendo di iniziativa. Davano fastidio durante i pranzi e le cene, con volgari canzonacce e, di notte, schiamazzavano rumorosamente lungo i corridoi dell’albergo, che ospitava anche le altre rappresentative statunitensi.
Un americano che si trovava a St. Moritz per assistere alla manifestazione, venuto a sapere di quella insostenibile situazione, si offrì di assumere, a spese proprie, un allenatore locale, individuandone uno che aveva perso la propria squadra, per alcune divergenze di carattere tecnico, e che si rese immediatamente disponibile.
Trascorse due settimane di intenso allenamento, Gretchen iniziò il suo percorso agonistico, con una gara di avvio che risultò essere la “discesa libera”, specialità a lei non proprio congeniale, finendo in tredicesima posizione, su quarantadue partecipanti. Un risultano tutto sommato accettabile, non eclatante, che comunque le diede tranquillità e fiducia, cancellando parte di quel nervosismo che aveva, fino ad allora, avvertito in maniera troppo eccessiva.
Due giorni dopo, fu il momento della gara di “combinata alpina”, composta da una prova veloce ed una tecnica. Sapeva di muoversi su di un terreno a lei più familiare e confacente. Si classificò undicesima nella discesa e seconda nello slalom, risultati che la collocarono al secondo posto della classifica generale. Salì sul podio, con al collo una meritatissima Medaglia d’Argento, preceduta dall’austriaca Trude Beiser. Dopo anni di attesa, di paure e di speranze, si era finalmente avverato il sogno di un riconoscimento olimpico.
Il giorno seguente, il 5 febbraio, la ventinovenne sciatrice americana stordì il pubblico presente, acclamante ai margini della pista, nella prima manche dello “slalom speciale”, il suo cavallo di battaglia, posizionandosi al primo posto, con un tempo sbalorditivo. Nonostante un ritardo nella partenza di diciassette minuti, causato da un problema tecnico al sistema di cronometraggio, che creò una tangibile tensione in tutte le concorrenti, anche nella seconda manche la Fraser sciò con una destrezza ed una velocità tale, da accumulare un fortissimo vantaggio su tutte le partecipanti, classificandosi al primo posto. Questa volta, solo per lei, gli onori del gradino più alto del podio, le note dello “The Star-Spangled Banner”, l’inno nazionale americano, e la Medaglia d’Oro Olimpica, la prima, in assoluto, conquistata da un atleta statunitense nello sci alpino
Rientrata negli Stati Uniti, le vennero tributati i massimi onori, con una parata di gloria lungo la “Fifth Avenue” di New York, osannata come “La Fidanzata d’America”. Le sue lunghe trecce furono emulate dalle ragazze di tutto il paese.
Si ritirò da ogni attività, subito dopo quella rassegna olimpica, l’unica competizione internazionale nella quale conseguì risultati di rilievo, divenendo in seguito allenatrice della nazionale femminile e seguendo, tra le altre, Picabo Street e Susie Corrock.
Gretchen Fraser, celebre, oltre che per quel significativo “primato”, anche per il suo carattere e per una proverbiale modestia, nel 1960 fu inserita nella “National Ski Hall of Fame”. Il suo volto apparve, per molti mesi, sulle scatole dei “Wheaties”, un’importantissima marca di cereali per la prima colazione, famosa, appunto, per pubblicare l’immagine di atleti, del presente e del passato, beniamini indiscussi degli americani, sul davanti delle sue confezioni.
Morì, a Sun Valley, nell’Idaho, il 17 febbraio 1994, un mese dopo la scomparsa dell’amato marito.