“Il Laccio per Scarpe” che cambiò la storia
L’Europa, nella sua totale ampiezza, dalla Baia di Biscaglia agli Urali, si sarebbe potuta inabissare, senza lasciare traccia di sè, tra Honolulu e Manila; eppure, le campagne di guerra, combattute nel Pacifico, si mossero su estensioni di gran lunga maggiori. Uno spazio militare inaudito, scontri combinati per terra, per mare e per aria senza precedenti. Questo fu il fascino del conflitto in quell’Oceano.
Il periodo storico, in cui tutte quelle operazioni furono fattibili, arrivò e passò molto rapidamente. Ed il momento culminante fu un’incredibile mischia, durata sei mesi, che infuriò nei cieli, sull’acqua, sotto l’acqua e nella giungla, per il possesso di un piccolo, piccolissimo, aeroporto, dalla capienza di soli sessanta velivoli, chiamato “Henderson Field”, sull’isola di Guadalcanal, nel mezzo dell’Arcipelago delle Isole Salomone.
Quella che lì si combatté, dal 7 agosto 1942 al 9 febbraio dell’anno dopo, fu una campagna trascurata, una piccola Stalingrado del Pacifico. Se si fosse trattato di una vittoria inglese, Churchill ne avrebbe scritto un intero volume. Ma gli americani, apatici nei confronti della loro storia militare e, soprattutto, mancanti del senso tipicamente europeo del passato e di scrittori di grande cultura, non lasciarono relazioni adeguate sull’argomento. Anche se è assolutamente corretto affermare che la Seconda Guerra Mondiale, al di là degli eclatanti eventi che giunsero più tardi, fu imperniata sui cardini di quella vittoria.
Sotto la guida sbagliata, ma freneticamente cinetica, di Adolf Hitler, per sei anni infuriò una tempesta mondiale e tutto divenne fluido. Le masse terrestri del pianeta, centoventi milioni di chilometri quadrati di proprietà terriere, furono in pericolo. Il “samurai” asiatico si lanciò avanti per stringere un’alleanza con il “soldato” tedesco, anelando ad una giusta ridistribuzione delle superfici abitate del globo. Nonostante la loro minacciosa retorica, i giapponesi non miravano a distruggere gli Stati Uniti. Sapevano che non ce l’avrebbero mai fatta ed avevano uno scopo limitato. Secondo il loro punto di vista, l’Asia sudorientale non riguardava affatto gli occidentali. Erano del tutto convinti che, grazie alla conquista dell’Europa da parte germanica (data per scontata), avrebbero potuto scacciare finalmente gli sfruttatori capitalisti e fondare una pacifica “Grande Asia Orientale”, solo per gli asiatici, compresa la Cina. Sarebbe stata una sorta di “sfera di co-prosperità”, guidata dal Giappone e amica della nuova padrona del mondo, la Germania. Il loro obbiettivo militare consisteva in una rapida conquista dei territori desiderati, per poi organizzare una salda difesa del perimetro, lungo linee interne. Speravano che i lontani e prosperi americani si sarebbero stancati di una guerra costosa cui non erano interessati e che avrebbero concluso una pace tale da consentire loro di salvare la faccia. Tutto ciò sarebbe forse potuto accadere, ma senza il loro fatidico irresponsabile attacco a Pearl Harbor, che destò nei fieri Yankees, ed in particolare nella loro magnifica marina, un’irrazionale sete di vendetta, propria dei cow-boys.
Secondo una trita battuta della US Navy, l’Ammiraglio Ernest Joseph King (1878-1956), Ernie per gli amici, si radeva “con un cannello ossidrico”. Aviatore della Marina, con un lungo passato di successi alle spalle, era stato accantonato nel General Board, un gruppo consultivo formato da anziani ammiragli senza alcuna prospettiva. La sua personalità fredda ed imperiosa non lo aveva di certo reso benvoluto, anche perché lui fu causa di risentimenti e di carriere stroncate. Subito dopo Pearl Harbor (7 dic. ’41), il Presidente Franklin Delano Roosevelt lo nominò Comandante in Capo della Flotta USA. Si dice che King commentò così la nomina: “Quando le cose si mettono male, chiamano i figli di puttana a risolverle [lett.]”. Nella Wehrmacht tedesca, invece, quando le cose “si mettevano male”, Hitler mandava a chiamare gli “adulatori”. Ma questa è un’altra storia!
Assunto l’incarico, la prima decisione che dovette prendere, a sangue freddo, fu quella di attaccare l’isola di Tulagi, vicino a Guadalcanal, sede del Governo britannico del Protettorato, occupata dalle truppe nipponiche. Di certo dovette venire alle prese con l’atavica ed immutabile politica Roosevelt-Churchill, cioè “la Germania innanzitutto”, costringendolo così a trascurare la “sua” guerra, a favore di quella, considerata più importante, nel Mediterraneo. Ma sapeva bene che, per vent’anni, la Marina aveva progettato di distruggere il Giappone se l’egemonia degli Stati Uniti fosse stata sfidata dal “pericolo giallo”. Il momento era giunto. Nella supposizione che i giapponesi potessero colpire per primi, i giochi di guerra americani avevano predisposto un piano di contrattacco. King, che lo conosceva perfettamente, incontrò molte difficoltà nell’ottenere forze sufficienti, destinate al suo teatro di operazioni. Fortunatamente per lui, il Capo di Stato Maggiore dell’Esercito, il Generale George Marshall (proprio quello del famoso “Piano”) aveva proposto al Capo della Casa Bianca, persuadendolo, di ordinare che tutti gli sforzi bellici fossero concentrati verso l’Impero di Hirohito. King ne approfittò subito e, con la sua flotta, salpò per conquistare la base di idrovolanti giapponesi, impiantata sull’isoletta di Tulagi, per poi proseguire verso Guadalcanal. La missione, chiamata “Watchtower Operation” (Operazione della Torre di Guardia), venne rinominata sul campo “Shoe Laces Operation“ (Operazione Laccio per Scarpe), data la scarsità delle pedine disponibili.
L’aeroporto “Henderson Field” costituiva una minaccia, che King non poteva accettare. Togliendolo al nemico, si sarebbe assicurato la superiorità aerea nelle Salomone e l’aviazione statunitense, a lungo raggio, avrebbe potuto colpire la base militare nipponica di Rabaul, che con i suoi formidabili “Zero”, ostacolava le comunicazioni con l’Australia ed impediva l’avanzata verso il Giappone. L’ordine tassativo per i reparti, sia navali che terrestri, della “Laccio per Scarpe” era di “arrivare a conquistare e tenere l’aeroporto di Guadalcanal”, anche perché l’isola, di per sé, non era la vera posta. Così l’America scivolò, si può ben dire, nella più ardua campagna del conflitto.
Per mesi, i combattimenti al suolo, infuriarono su di una stretta striscia di piantagioni, lungo il litorale settentrionale, che fiancheggiava l’aerostazione. Il resto della zona venne lasciato alle zanzare, agli animali della giungla ed agli indigeni, che probabilmente erano, al contempo, spaventati e divertiti dai rumorosi e fiammeggianti fuochi d’artificio sulla costa nord. La piccola e male equipaggiata spedizione non incontrò inizialmente grosse difficoltà nell’occupare, prima Tulagi e poi Guadalcanal, ma il violento contrattacco, dalle vicine basi giapponesi, non si fece attendere. L’esercito e la marina del Sol Levante sembravano infestati da un eccesso di fiducia. Sul terreno, per lungo tempo, la situazione degli Yankees rimase incerta e difficile. I bombardamenti aerei e navali, gli attacchi notturni del nemico dall’entroterra, unitamente alla malaria ed alle altre malattie tropicali, li decimarono. I rifornimenti ed i rinforzi arrivavano furtivamente e scarsi. Affamati, assetati, convinti di essere stati dimenticati ed abbandonati, riuscirono a sopravvivere solo grazie al riso catturato ed alla benzina dei nipponici. Gli assediati marines ed i piloti spossati, continuarono ad avvinghiarsi al perimetro, finché la marea non invertì il suo corso. Lo storico bostoniano, ammiraglio della riserva, Samuel Eliot Morison, ebbe a dire: “Fu davvero una fortuna per l’America se in quel teatro di operazioni ed in quelle circostanze non vi furono ragazzi arruolati o indotti con le lusinghe a combattere, ma veterani che si batterono volontariamente e non chiedevano di meglio se non venire alle prese con l’abietto nemico, dal quale erano stati destati tutti i loro istinti primitivi”. Morison si lasciò, sicuramente, trascinare dall’entusiasmo patriottico, ma i marines degli Stati Uniti diedero una prova di straordinario coraggio.
Fu un massacro protrattosi per quattro giorni, con la luce del sole e con le tenebre. Vennero gettati, nella battaglia, tutti i mezzi di cui si disponeva. I giapponesi per sbarcare rinforzi massicci di truppe, gli americani per impedirlo. Testimoni oculari raccontarono di scontri navali nell’oscurità, con piogge di traccianti rossi e fasci di luce, tra il bianco e l’azzurro, che trafiggevano la notte per chilometri e chilometri. Le perdite, da entrambe le parti, furono elevatissime. Ma alla fine, una sola cosa contò: i velivoli USA, provenienti da portaerei e da basi terrestri, affondarono sette delle undici navi da trasporto nemiche, mentre le altre vennero costrette ad arenarsi sulle spiagge e furono bombardate fino ad essere ridotte in carcasse bruciate. Il Giappone, che non poté contare sul soccorso di una pigra e grande potenza, non si riprese mai più dal colpo ricevuto. L’Ammiraglio “Ernie” King era riuscito nel suo intento, togliere al Mikado la possibilità di quell’accordo negoziato, che era stato il suo obbiettivo di guerra.
I marines che bestemmiavano e sudavano sotto i fatali tiri giapponesi, gli aviatori che precipitavano verso la morte, gli ufficiali e gli uomini della marina le cui membra venivano dilaniate e disseminate sul fondo del mare, senza dubbio morirono imprecando contro chi li aveva mandati a misurarsi con forze tanto superiori, in quella località così remota della terra.
Nel linguaggio volgare dei combattenti d’America, Guadalcanal fu, e resta, “that fucking island (quella fottuta isola)!”