La diaspora italiana nel mondo: dalle valigie di cartone alle nuove città oltreoceano
Le guerre degli ultimi anni, localizzate negli scontri ma globalizzate nelle conseguenze, tra cui ricordiamo quella in Siria e, più recentemente, in Afghanistan, continuano a tener aperto il difficile dibattito sull’accoglienza e sulla solidarietà del “sistema Europa”. Milioni di esseri umani persi tra confini politici e violenze inenarrabili, di cui i bambini rappresentano la più dolorosa testimonianza, si muovono da anni verso il Vecchio Continente per cercare una vita migliore o potremmo dire, in certi casi, solo possibile. Un tema davvero complicato che si muove politicamente, anche in un’Italia porta d’accesso continentale di molti flussi emigratori, tra l’affilatissima linea rossa della sicurezza interna e quella bianco candido dell’umanità vera. Una storia, a dire il vero, che noi italiani dovremmo conoscere meglio di tutti. Sì, perché siamo stati un popolo di massiccia emigrazione, quella ad esempio proveniente e spinta dallo spartiacque ottocentesco dell’Unità d’Italia, momento di lenta e costante accelerazione di disperazione e partenze, capace di raggiungere il mostruoso picco di 873.000 espatri nel 1913, caratterizzata sostanzialmente da una totale crisi economica, organizzativa e politica di quella che Metternich aveva definito maliziosamente «una mera espressione geografica». Una grande diaspora di oltre 14 milioni d’italiani, realizzata principalmente tra il 1876 ed il 1915, per buona parte indirizzata verso Europa e Americhe, inizialmente proveniente quasi esclusivamente da Veneto, Friuli, Lombardia e Piemonte, regioni afflitte da carenza di terra da coltivare e da una spaventosa povertà, e solo successivamente allargatasi copiosamente anche al sud. Una fuga possibile anche a causa dell’abolizione della schiavitù in diversi paesi d’oltreoceano, come ad esempio il Brasile, e la sua ancor più assurda trasformazione in accoglienza di immigrati provenienti dal Vecchio Continente, praticamente la nuova mano d’opera a bassissimo costo senza diritti, emarginata dal contesto sociale interno, che avrebbe quindi sostituito le antiche catene di Kunta Kinte coltivando sterminati campi, costruendo palazzi simbolo dei Paesi d’oltreoceano e, ancor più, costruendo le infrastrutture e le ferrovie di quell’America profondamente razzista nei nostri confronti. A testimonianza di tale condizione possiamo ricordare sì le tanto note valigie di cartone, ma soprattutto i tanti episodi di sofferenza, umiliazione e morte che i nostri avi dovettero subire non diversamente da ciò che vediamo oggi. Ricordiamoci degli umilianti riti d’ingresso a New York, dei viaggi sui transatlantici che in 3 mesi di navigazione, prima di giungere in Sud America, diventavano luogo di morte per tantissimi migranti esattamente come quelli che oggi usano le carrette del mare nel Mediterraneo. Ma forse ora più che mai, in questo mondo globalizzato in cui conosciamo tutti i dettagli dell’abbigliamento, delle App, dei VIP o delle automobili di lusso, c’è bisogno anche di ricordare quei percorsi e le lunghe sofferenze che patirono i nostri fratelli, mai paghi di lavoro pur di riscattare la propria esistenza e “risorgere” nonostante le continue umiliazioni. Allo stesso modo dobbiamo riferirci e rievocare anche i numerosi straordinari successi della nostra gente, episodi esemplificabili in alcune particolari storie come quella di Anna Rech, vedova con sette figli a carico, partita da Pedavena nel bellunese e approdata in Brasile nel 1876, diventata capostipite di un’intera cittadina che oggi porta il suo nome in uno dei distretti più importanti del Sud America. Ma possiamo anche citare don Pietro Bandini, gesuita alla guida di un esperimento coloniale insieme ad un gruppo di agricoltori presenti nell’area di New York, suoi parrocchiani, che permise la nascita di un’altra fiorente città italoamericana: Tontitown. Fondata nel 1898 in Arkansas, in onore del nostro esploratore seicentesco Enrico Tonti, in un’area particolarmente adatta alla coltivazione della vite, si rivelò un tale successo che ad oggi il suo famosissimo Tonti Town Grape Festival è arrivato alla 122a edizione, praticamente celebrato ogni anno dalla nascita della colonia! Ma come accade ancora oggi, durante i ruggenti anni ’20 gli USA, presi dalla riconversione industriale del primo dopoguerra, poi oppressi dalla tremenda crisi del 1929, inventarono l’Emergency Quota Act, l’odioso sistema delle quote d’ingresso. All’Italia, considerata “un’altra Africa”, furono concessi numeri ridicoli ed i permessi d’ingresso regolari ridotti a poche migliaia di lasciapassare.
E pensare che agli immigrati italiani il mondo doveva già molto alla fine di quegli anni, a cominciare proprio dagli States. Un certo Amadeo Peter Giannini, un californiano di origini italiane, nato da genitori emigrati dalla provincia di Genova, è stato il fondatore della Bank of Italy, istituto sorto nel 1904 per fornire credito ai tanti immigrati giunti in un paese che rifiutava spessissimo rapporti creditizi a chi non era bianco e americano. Una banca in grado di dimostrare l’animo e la solidarietà italiana durante uno degli eventi più tragici della storia americana. Dopo aver salvato tutti i soldi depositati nel suo istituto, crollato insieme al resto della città di San Francisco, protagonista del tremendo terremoto del 1906, Giannini riorganizzò l’attività con la tipica arte italiana dell’arrangiarsi ed a pochi giorni dal disastro iniziò a concedere prestiti a tutti i cittadini che volevano iniziare la ricostruzione. Usando un semplicissimo asse di legno tra due botti, letteralmente in mezzo alla strada, fece crescere la reputazione della Bank of Italy fino a farla diventare sinonimo di solidarietà, fiducia e organizzazione. Questo incredibile successo, realizzato addirittura in mezzo alle macerie di una delle più importanti metropoli statunitensi, fu notato e nel 1928 la Bank of Italy si fuse con la Bank of America, fondata 5 anni prima a Los Angeles dal famoso avvocato e scrittore Orra Eugene Monnette. Una storia, quindi, che ha segnato in positivo il futuro di un paese a stelle e strisce che umiliava gli italiani, li condannava a morte da innocenti – si ricordi l’atroce storia di Sacco e Vanzetti – e li schiavizzava per costruire le proprie ferrovie. Noi siamo stati emigranti. Risolvere i problemi dei flussi migratori, chiedere sicurezza e rispetto delle regole è giusto. Dimenticare il dolore di una diaspora che abbiamo conosciuto bene è criminale.