Brexit: disagi e conseguenze
Sono passati già nove mesi dalla “Brexit” e cioè dall’uscita della Gran Bretagna dall’Unione europea.
Con il referendum del 23 giugno 2016, il 51,89% dei sudditi di Sua Maestà aveva espresso la volontà di abbandonare l’Europa Unita e chiudere in maniera definitiva con un’istituzione mai accettata fino in fondo, verso la quale si è sempre avuto scarso feeling, sottolineato anche dalla mancata adesione all’Euro.
Dal 2016 al 2020 ci sono state molte discussioni in merito alle effettive modalità “di uscita” fino all’accordo di cooperazione firmato a fine dicembre dello scorso anno. Prima di tutto sono stati reintrodotti i dazi per le merci inglesi da dichiarare alla dogana, altresì i prodotti britannici che entrano nel mercato dei Paesi UE devono essere accompagnanti da licenze specifiche e certificazioni per soddisfare le norme di sicurezza europee. Secondo i dati raccolti dall’Istituto di Statica inglese (ONS) già da gennaio 2021 le importazioni e le esportazioni britanniche da e verso l’Europa sono calate drasticamente. Il tutto aggravato dalla pandemia e soprattutto con un impatto maggiore sulle piccole imprese rispetto alle multinazionali, già pronte e meglio strutturate per gestire dazi e controlli doganali al di fuori del contesto UE.
La Brexit ha rappresentato un evento traumatico non solo per le relazioni internazionali, ma ha acuito anche le divergenze e i dissapori derivanti da quelle interne, tra gli Stati che compongono il Regno Unito. Soprattutto quelle con la Scozia, storicamente più europeista dell’Inghilterra che ha votato nettamente per restare in Europa e dove la Brexit ha ridestato la voglia di indipendenza. Un’altra linea di frattura è senza dubbio con l’Irlanda del Nord o meglio nello stretto di mare che separa l’isola dalla Gran Bretagna: l’accordo raggiunto a dicembre presuppone controlli e dazi doganali sui prodotti che dal Regno Unito arrivano verso i Paesi comunitari come la Repubblica d’Irlanda, ma l’isola d’Irlanda ha anche un territorio, quello del Nord, appartenente alla Gran Bretagna stessa e l’imposizione di imposte sulle merci, come affermato dal leader inglese Johnson, ne limiterebbe la libera circolazione all’interno del territorio britannico.
Oltre alle tante diatribe politiche, la Brexit ha portato con sé problemi che hanno cambiato la vita dei cittadini del Regno Unito ed è difficile fare i conti con tutti i suoi effetti negativi che si sono intrecciati con i danni economici provocati dalla pandemia da Covid-19.
Il divorzio britannico era stato promosso da molti, come necessità per impedire ai cittadini arrivati dagli altri stati europei, di “togliere” il posto di lavoro a quelli nativi, insomma un “Prima i britannici!”, mentre adesso analizzando l’economia e la vita dei sudditi della Regina, appare invece chiarissimo che senza l’apporto della manovalanza di origine europea, l’economia britannica non riesce a girare a pieno ritmo e rischia di frenare la sua crescita post Covid-19.
Dal 1° gennaio 2021 il Regno Unito ha implementato un sistema di immigrazione a punti e anche a causa dell’emergenza sanitaria mondiale, molti lavoratori stranieri hanno preferito lasciare la Gran Bretagna per non farvi ritorno. Ciò ha determinato carenza di lavoratori nel settore della ristorazione, della distribuzione, in quello dell’edilizia e dell’agricoltura e nel settore trasporti. Secondo le ultime stime i posti di lavoro vacanti nel Regno Unito sono più di 100mila! Il settore ristorazione appare uno dei più penalizzati con circa 70mila posti vacanti di cui 42mila chef e non è da meno il settore trasporti per una grave penuria di autisti.
Per tamponare la situazione, soprattutto nel settore ristorazione e servizi sociali è stato introdotto una sorta di “bonus assunzioni” con un importo aggiuntivo sullo stipendio destinato al dipendente, ma alla lunga questa situazione potrebbe innescare un innalzamento dei prezzi per beni e servizi a discapito del consumatore finale.
E’ notizia di queste ultime settimane il mancato rifornimento di generi alimentari ai supermercati, in cui appaiono sempre più spesso scaffali vuoti, e di carburante alle stazioni di servizio, carenze legate alla scarsità di camionisti (moltissimi che lavoravano nel Regno Unito provenivano soprattutto dall’Est Europa) e un portavoce del Premier Johnson ha confermato un possibile intervento dell’esercito qualora la situazione dovesse ulteriormente peggiorare.
Tra Brexit e Covid-19 il Regno Unito sta affrontando “il peggiore periodo di carenza di cibo dai tempi della Seconda Guerra Mondiale”: è questo l’allarme lanciato dal miliardario Boparan, noto come “il re dei polli” per il suo business legato alle carni bianche che ha ulteriormente affermato che la Brexit combinata alla crisi derivante dalla pandemia ha spinto il settore ad “un punto di crisi”.
Ma i problemi non sono solo britannici, basti pensare che in seguito alla Brexit, oltremanica sono cambiate anche le abitudini alimentari a tutto discapito, per esempio, dei prodotti italiani e della dieta mediterranea con un crollo del 28% delle importazioni di pasta e a subire una diminuzione netta sono stati anche l’olio extravergine di oliva, la salsa di pomodoro, vini, spumanti e formaggi “Made in Italy”. Diminuzioni e mancate importazioni agroalimentari che mettono a rischio i 3,4 miliardi di euro di esportazioni annue con il Regno Unito, che è al quarto posto tra i partener commerciali del nostro Belpaese.
Altre conseguenze? Per esempio il crollo delle iscrizioni alle Università di Oxford e Cambridge. Il sistema universitario del Regno Unito gode di grande reputazione in Europa ed è considerato il secondo migliore al mondo, ma a quanto pare non ha saputo “tener botta” prima alla pandemia e poi alla Brexit: il famoso progetto Erasmus non è più applicabile e il numero degli iscritti stranieri agli atenei britannici è calato di oltre 15mila unità anche per la tassa d’ iscrizione in alcuni casi triplicata per gli studenti provenienti da altri Stati. Diamo ancora i numeri: Londra continua a perdere appeal anche come capitale finanziaria che dal 2016, anno del referendum pro Brexit fino al 2020, ha visto dimezzare i posti di lavoro messi a disposizione dai grossi gruppi finanziari sul territorio britannico, arrivando ai minimi dal 2015.
Ancor prima del referendum del 2016, la probabile Brexit veniva accostata dai suoi sostenitori, all’idea di un Regno Unito forte e finalmente libero dai vincoli della politica europea, proiettato verso un ruolo di potenza mondiale, grazie anche a nuovi rapporti commerciali con gli Stati Uniti e con il Commonwealth of Nations, un’associazione di 54 Stati nati dalle ceneri dell’Impero britannico e per questo a marzo 2021 è stato redatto un documento governativo che ha l’intento di ripensare e ridisegnare il ruolo del Regno Unito nel mondo, delineando nuove strategie internazionali. Ma tutto sembra essere poco più di uno slogan politico.
I maggiori esperti mondiali avevano avvertito il governo britannico che la sostituzione del più grande e ricco mercato unico al mondo, quello europeo, sarebbe stato impossibile, seppur con nuovi accordi con le potenze economiche emergenti.
Insomma tutti i rosei orizzonti di espansione economica che la Brexit doveva portare con sé, sembrano essersi dissolti. Alla luce dei disagi e delle conseguenze che la Brexit ha portato ai sudditi di Sua Maestà, ci si può convincere facilmente che il risultato di quel famoso referendum, ripetuto adesso, avrebbe ben altro esito.