La Terra grida aiuto: i rischi dell’Antropocene
“Viviamo nel mezzo di una crisi epocale” afferma con vigore Luca Mercalli, il Presidente della Società meteorologica italiana, “la crisi ambientale climatica è qualcosa che incombe sul futuro dell’umanità, giganteggia su di noi ma sembra che nessuno se ne sia accorto. Soltanto gli scienziati.
La scienza avverte ormai da decenni della gravità di questa situazione inedita, tant’è che è stata denominata con una nuova definizione l’era geologica che stiamo vivendo. Non si parla più di era olocenica, ma di era antropocenica”.
Ma cosa significano questi ultimi termini?
Il termine “Antropocene” fu utilizzato per la prima volta negli anni Ottanta dal biologo Eugene Stroemer. Ha cominciato però a farsi strada nel dibattito scientifico ed intellettuale soprattutto dall’inizio del nuovo millennio. L’iniziatore fu il Nobel per la chimica Paul Crutzen: durante un convegno sulla biosfera, annunciò che, a suo avviso, l’Olocene era da considerarsi concluso. Si era entrati in una nuova epoca geologica della Terra, l’Antropocene: l’ambiente terrestre, inteso come l’insieme delle caratteristiche fisiche, chimiche e biologiche in cui si svolge ed evolve la vita, è fortemente condizionato a scala sia locale sia globale dagli effetti dell’azione umana.
In questa nuova epoca è l’uomo a rimodellare la Terra, modificandone i sistemi fondamentali.
L’Olocene, invece, è la seconda e ultima delle due epoche in cui viene suddiviso il Quaternario. Ha avuto inizio circa 11.000 anni fa con la fine della glaciazione Würm e costituisce il periodo geologico attuale, noto anche come Postglaciale.
La scienza diffonde da ormai parecchi anni la gravità della situazione, ma questo non sembra aver fatto breccia minimamente nella mente dell’essere umano. Occorre cambiare atteggiamento in questo senso e l’informazione ha un compito molto importante da questo punto di vista: molto spesso, infatti, vengono diffuse notizie assolutamente irrilevanti.
“Nel caso della pandemia” spiega ancora Luca Mercalli, “ad esempio, poco o nulla è stato evidenziato dal mondo dell’informazione in merito al rapporto esistente fra Covid-19 e crisi ambientale. Sarebbe stato utile adoperarlo invece come monito per essere particolarmente attenti alla programmazione di un’economia futura sostenibile”.
Invece ci aspetta un futuro che riguarda sempre e soltanto il rapporto fra uomo ed economia e società e nei notiziari è sempre più frequente l’ambito lessicale del PIL. Si può sentire parlare ancora di crescita senza considerare la sostenibilità?
Certamente no, occorre rendersi conto che il cambiamento climatico si può contrastare e osteggiare adoperandoci a fondo per riportare la terra alle condizioni di stabilità precedente. Siamo ancora in tempo. Purtroppo nessuno accenna e discute di quei limiti come il cambiamento climatico, il ciclo dell’azoto e la perdita di biodiversità – già ampiamente superati – che lentamente si trasformeranno in delle vere e proprie catastrofi ambientali.
La linea da adottare allora, lo spiega bene Mercalli, è quella “prudente”.
Così viene definita nella pubblicazione del V rapporto del Gruppo intergovernativo sul cambiamento climatico, ossia il foro scientifico formato nel 1988 da due organismi delle Nazioni Unite, l’Organizzazione meteorologica mondiale e il Programma delle Nazioni Unite per l’Ambiente, allo scopo di studiare il riscaldamento globale.
Tale “prudenza” sarebbe la miglior ricetta da seguire per cercare di frenare la catastrofe ambientale. E sarebbe una linea da seguire indistintamente dai governi (attraverso l’osservanza degli Accordi di Parigi stilati nel 2015), ma anche dai giusti comportamenti dei singoli cittadini nella vita di tutti i giorni.
“Il caldo” si legge nella presentazione del nuovo studio sugli impatti dei cambiamenti climatici (Setting and smashing extreme temperature records over the coming century), “sarà sempre più da record in buona parte del mondo, se le concentrazioni di gas serra nell’atmosfera continueranno a crescere”. E più saranno intensi e frequenti gli eventi meteorologici estremi come le ondate di calore, “maggiore sarà la possibilità di spingere gli ecosistemi e le comunità oltre la loro capacità di resistere”.
Gli autori della ricerca hanno utilizzato differenti modelli climatici per stimare la probabilità che le temperature raggiungano dei picchi nelle varie regioni del mondo. In particolare, sono due i possibili scenari futuri definiti dall’IPCC (Intergovernmental Panel on Climate Change, l’organismo delle Nazioni Unite che studia l’evoluzione del clima): uno scenario presenta concentrazioni molto elevate di gas-serra entro la fine di questo secolo, l’altro invece presuppone di contenere il surriscaldamento globale sotto 2 gradi centigradi.
Insomma, il 58% del nostro pianeta potrebbe essere interessato da un nuovo record di temperatura massima almeno una volta l’anno entro il 2100, specie nei paesi in via di sviluppo nelle regioni tropicali.
Se invece il global warming rimarrà sulla soglia dei 2 gradi, come previsto dagli accordi internazionali di Parigi, le zone esposte ogni anno alle ondate di calore fuori scala saranno molto più ristrette, perché si parla in questo caso del 14% del pianeta Terra.
I modi per cercare di sistemare una situazione che appare sempre più irrimediabile esistono, ma occorre maggiore interesse da parte del mondo dell’informazione, della politica e dell’economia, ancora troppo indifferenti e deficitari rispetto a queste problematiche.