Freddie Mercury: a 30 anni dalla scomparsa, la leggendaria voce non muore mai
Eclettico performer, geniale cantante, ma anche uomo generoso e solitario. Come dichiarò lui stesso, “una prostituta della musica”.
Era il 1964 quando il diciottenne parsi Farrokh Bulsara (questo il nome originario dell’artista) dovette trasferirsi dalla rivoluzionaria Zanzibar alla colorata Londra con la sua famiglia. Il nuovo ambiente non gli dispiacque affatto: nell’Inghilterra dei Beatles, degli Stones e degli Who, della moda e del cinema, il giovane Freddie, non solo otteneva ottimi voti al college, ma si inseriva facilmente nella realtà rock locale prendendo saltuariamente parte alle esibizioni di band londinesi. Proprio in questo contesto decise che il suo nome doveva essere “Freddie Mercury” – come il messaggero degli Dei. La svolta decisiva avvenne però con gli “Smile”: nel 1970, frequentando l’Ealing College of Art, conobbe i membri della band. Il chitarrista Brian May e il batterista Roger Taylor erano appena rimasti senza cantante e senza alcuna speranza di poter entrare nel mondo della musica, ma nessun problema: Freddie si offrì volontario e, sin dai primissimi concerti nei piccoli locali inglesi, dominava il palco, quasi formando un solo corpo artistico con il pubblico. Quando alla band si aggiunse anche il bassista John Deacon, ecco che i Queen nacquero ufficialmente.
Tutti i concerti della leggendaria band furono 707 in soli vent’anni di carriera, periodo in cui Freddie si dimostrava sempre molto coraggioso nel vivere la sua identità, dichiarando senza imbarazzi la sua omosessualità, non solo durante le interviste, ma anche nel corso degli spettacoli, attraverso i singolari costumi, le lussureggianti gestualità, il falsetto. Anche per il pubblico di oggi è sorprendente osservare come esprimesse il diritto di essere sè stesso, col supporto di una band dalle ammalianti e al contempo ruggenti sonorità.
Oltre all’espressività, quel che rimbomba piacevolmente nella memoria di chi ha ascoltato – o anche vissuto – appassionatamente i Queen è quella voce. La voce che passava dal baritono al tenore e al falsetto con precisione e leggerezza, come evidenziò anche il soprano Montserrat Caballé (che aveva duettato con lui nel 1988): «Aveva grande musicalità. Il suo fraseggio poteva essere sottile, delicato e dolce o più energico e deciso. Era in grado di trovare il giusto timbro, la giusta sfumatura espressiva per ogni parola».
Vari studiosi e professionisti del canto confermano, insieme a Caballé, la tesi delle quattro ottave, secondo cui la sua estensione vocale iniziasse dal fa della prima ottava al fa della quinta. Nel 2016 è stato condotto uno studio sulla voce di Mercury. Il risultato è stata un’ulteriore conferma alle varie tesi: «Un vibrato notevolmente più veloce rispetto ai cantanti d’opera, oltre a un uso eccezionale dei subarmonici».
Ed era anche grazie alla sua voce che i Queen sono stati associati più volte a generi come il glam rock e l’art rock. In effetti i quattro ragazzi erano partiti dalla semplice idea di mettere su una rock band, ma il talento di Freddie e l’ambizione compositiva dell’intero gruppo (in particolare di Brian), la rendeva qualcosa di più, come un’enorme orchestra sinfonica condensata in pochi e semplici strumenti. Freddie stesso dichiarò, in un’intervista del 1986: «Odio fare le stesse cose più volte. Mi piace osservare il modo in cui si evolve il mondo della musica, del cinema, del teatro e integrare gli elementi caratteristici di ognuno di essi».
Pochi mesi dopo la sua prematura morte, causata dall’AIDS, avvenuta il 24 novembre 1991, fu organizzato da Brian May e Roger Taylor il “Freddie Mercury Tribute Concert”. Parteciparono artisti da ogni parte del mondo, da David Bowie (che aveva registrato con i Queen il singolo “Under Pressure”) ad Axel Rose, al nostro Zucchero Fornaciari.
Musei in tutto il mondo, monumenti e concerti celebrativi raccontano ancora la sua storia, fino al film “Bohemian Rhapsody” uscito nel 2018, che narra la storia di quest’uomo dai primi contatti con i suoi amici Brian e Roger fino all’indimenticabile concerto “Live Aid” del 1985.
Insomma, nonostante le insicurezze trascinate a lungo nella sua vita privata, nonostante lo stile di vita poco equilibrato, le sfarzosità, e le complicate relazioni interpersonali, Freddie è rimasto nell’immaginario internazionale non come “un”, bensì come “il” performer e cantante per eccellenza, capace di catturare, con un solo gesto, con un solo “Ay-oh” a gran voce, un intero stadio (come accadde in tanti concerti, ma in particolare nel 1986 al Wembley Stadium). Un’immagine sonora che resta impressa nella mente di chi apprezza la musica in tutte le sue sfumature.