La “fortuna” di Montaigne
Chi è costui, perché parlarne? Perché non è mai stato degnato di un solo capitolo, nemmeno compendiosamente conciso, in alcun testo scolastico ed inspiegabilmente trascurato, nonostante sia stato un filosofo, definito dalle più grandi menti della cultura, tra i pionieri del pensiero moderno, che ha fortemente influenzato tutta la letteratura europea.
Michel Eyquem era nato a Bordeaux il 28 febbraio del 1533 e fu, oltre che pensatore, uno scrittore ed un politico, noto anche come aforista. Lui, che si diceva di antico lignaggio, abbandonò il patronimico plebeo, per il nome della nobile terra di Montaigne, piccola signoria situata ai confini della Guyenne e del Périgord, antica provincia storica del bordolese, che il bisnonno Ramon, arricchitosi con la bottega di vino, guado (pianta sfruttata, fin dai tempi più remoti, per le sue proprietà tintorie) e pesce salato, nella vecchia Rue de la Rousselle di Bordeaux, acquistò sul finire di una vita laboriosa. Alla sua morte, il figlio Grimon, nonno di Michel, ne ricevette l’azienda e raggiunse gli onori ufficiali, divenendo magistrato civile. In quell’ambiente agiato e senza conformismo, il giovane crebbe, nonostante la presenza di dotti precettori, senza gustare veramente né lo studio né la disciplina, dimostrando, altresì, un particolare interesse per un “divertissement” molto in voga nel collegio che frequentava, cioè la rappresentazione teatrale di commedie in lingua latina. Si affacciò, in ogni caso, a soli vent’anni, alla carriera pubblica, con l’incarico di Consigliere del Parlamento di Bordeaux, lasciatagli in eredità dal padre Pierre, nel 1553.
Dopo anni trascorsi nella conduzione degli affari di stato, alla Corte di Carlo IX, Re di Francia, impiegato lungamente in importanti missioni all’estero, spinto fino ai confini del mondo per la delicata gestione dei nativi americani, Michel de Montaigne decise, nel 1570, di lasciare il Parlamento e di rassegnare le dimissioni dal suo ufficio, complici sicuramente la scarsa attitudine ai problemi della giustizia, i crescenti disordini delle guerre religiose e civili, l’amicizia con il collega e studioso Estienne de la Boétie, il matrimonio e la morte del padre. Ritiratosi definitivamente nel suo castello, “stanco della schiavitù della corte e delle cariche pubbliche”, al fine di trascorrere nella quiete e nella sicurezza gli anni che gli restavano da vivere, con la speranza che il destino gliene avrebbe consentiti di numerosi, si dedicò anima e corpo alla scrittura di opere filosofiche, religiose, politiche e drammaturgiche. Nacque così il suo enciclopedico trattato, da titolo “Essais” (Saggi).
“Il libro sono io”, aveva scritto nelle prime pagine, parlando a lungo delle sue caratteristiche fisiche, del suo temperamento, dei suoi sentimenti, delle sue idee e degli avvenimenti della sua vita. Il fine era quello di conoscersi e di conquistare la saggezza. “Scrivo il mio libro per pochi uomini e per pochi anni”, aveva aggiunto. Su questo punto, però, Montaigne si ingannò e, del resto, come avrebbe potuto essere altrimenti, di un trattato che ha fatto della scienza dei costumi e della conoscenza dell’uomo il suo oggetto sostanziale. Il sentimento di un’esistenza pienamente accettata e quindi goduta, la serena attesa della morte, considerata un evento naturale da aspettarsi senza timore, hanno reso quest’opera estremamente umana. Studiando se stesso, egli giunse all’accettazione della vita con tutte le sue contraddizioni. Le numerose edizioni dei “Saggi”, dal 1588 al ’95, ebbero una grandissima diffusione in tutta Europa. Francesi e non, vi trovarono l’eco dei loro pensieri. La varietà di opinioni e la moltitudine di aneddoti, che si connettono senza pedanteria, fanno dello scritto una vera e propria “summa”, in cui il secolo morente si riconobbe in tutta la sua interezza. Contribuirono, infatti, ad impregnare di morale stoica la prima generazione del XVII Secolo. Balzac, Cartesio e, soprattutto, Corneille ne furono i testimoni, con il loro culto della ragione, della volontà e della virtù. Per contro, gli intellettuali, quelli mondani, si richiamarono soprattutto allo stoicismo ed all’epicureismo degli “Essais”. Aristocratici libertini come il Signore di Mèré, il Duca di Roannez ed il fisico e filosofo Blaise Pascal, ne fecero il loro “livre de chevet” (libro prediletto). E fu proprio dai “Saggi” che quest’ultimo attinse la sua conoscenza dell’uomo, prima della conversione al giansenismo, affinando poi contro di essi tutte le armi della sua eloquenza. Pascal ebbe a dire: “Che idea sciocca ha avuto Montaigne di dipingere se stesso! E non di sfuggita e contro le sue stesse massime, ma conforme alle sue massime e secondo un disegno originario e fondamentale”. Nel Settecento, le pubblicazioni si moltiplicarono e vi attinsero gli uomini più diversi. Una comune ammirazione legò Voltaire, Montesquieu e Rousseau. Francesi e compatrioti del letterato, che appariva ai loro occhi un pensatore più che un autore, ne apprezzarono, soprattutto, la ponderatezza delle vedute politiche e sociali. Charles-Louis de Secondat, Barone de La Brède e di Montesquieu, meglio noto solamente come Montesquieu, affermò: “Nella maggior parte degli autori io vedo l’uomo che scrive. In Montaigne vedo l’uomo che pensa”. François-Marie Arouet, che usava lo pseudonimo di Voltaire, lo riabilitò di fronte a Pascal, fortemente incantato dalla sua agilità di spirito, dalla sua ironia e scetticismo. “Come non ricordare, dinnanzi alla condanna del fanatismo delle crociate e la difesa dei musulmani contenute nell’Essai sur les moeurs [Saggio sui costumi], l’elogio dell’Imperatore Giuliano, tessuto da Montaigne?”. E si compiacque di aggiungere: “Che idea affascinante ha avuto Montaigne di dipingere ingenuamente se stesso, come ha fatto! Poiché ha dipinto la natura umana”. Altrettanto incisiva fu la protesta dello svizzero Jean-Jacques Rousseau, di temperamento religioso e grave che, pur non godendo di una particolare simpatia nei suoi riguardi, non poté, con la ragione, non attestarne i valori, nel dire: “Ma che vale allo scettico Montaigne l’affannarsi a scovare in un angolo di mondo un costume opposto alle nozioni della giustizia? Tu che ti picchi di franchezza e di verità, sii sincero e verace, se può esserlo un filosofo, e dimmi se esiste sulla terra un paese dove sia un crimine mantenere la parola data, essere clementi, generosi e dove il buono sia disprezzato ed onorato il malvagio”. Nell’Ottocento, Gustave Flaubert confidò ad un amico: “Sto leggendo Montaigne. Non conosco libro più pacato e che disponga a maggiore serenità. Come è sano tutto ciò”. E nell’era del Romanticismo, con il suo illimitato entusiasmo, anche se molto lontano dallo spirito di Montaigne, questi servì naturalmente da guida al pensiero sinuoso, reticente e lucido di uno scrittore, ed al tempo stesso aforista, del peso di Charles Augustin de Sainte-Beuve. Agli inizi del Novecento, infine, Alain (pseudonimo di Émile-Auguste Chartier), Paul Valéry ed Andé Gilde non hanno nascosto la sua influenza, il suo sforzo di lucidità, quel rifiuto di prendere parte alle passioni ed al fanatismo, quella coscienza di se stessi che precede la conoscenza del prossimo, quella simpatia ironica per le debolezze umane, che sono propri di questo maestro del pensiero.
I “Saggi” sono brani di varia lunghezza, struttura, soggetto ed umore. Taluni sono di estrema brevità, mentre altri, più estesi, affrontano problemi specifici di quel tempo, come, ad esempio, l’uso della tortura, quale mezzo di prova. Egli fu il primo ad esprimere pubblicamente, con estremo coraggio, un giudizio fortemente negativo su tale pratica. Dubitava fortemente delle confessioni ottenute con le sevizie, sottolineando che “potevano essere del tutto inventate dall’incriminato, solo per il desiderio di sottrarsi ad esse”. Nel passo indirizzato al lettore, Montaigne scrisse: “Voglio che mi si veda qui nel mio modo d’essere semplice, naturale e consueto, senza affettazione né artificio: perché è me stesso che dipingo. Si leggeranno qui i miei difetti presi sul vivo e la mia immagine naturale, per quanto me l’ha permesso il rispetto pubblico. Ché se mi fossi trovato tra quei popoli che si dice vivano ancora nella dolce libertà delle primitive leggi della natura, ti assicuro che ben volentieri mi sarei qui dipinto per intero, e tutto nudo. Così, lettore, sono io stesso la materia del mio libro: non c’è ragione che tu spenda il tuo tempo su un argomento tanto frivolo e vano”.
Michel de Montaigne manifestò un relativismo culturale moderno, riconoscendo che le leggi, i costumi e le religioni delle diverse culture umane, per quanto diverse, potevano essere egualmente valide. Giudicò negativamente la conquista del Nuovo Mondo da parte degli europei, criticando le sofferenze che essa provocò agli indigeni di quelle terre. Fu disgustato dai violenti conflitti, che considerava “barbarici”, tra cattolici e protestanti. Credeva in Dio, ma evitava di speculare sulla sua natura. Considerava, infine, il matrimonio un evento necessario per la crescita e l’educazione dei figli, ma disapprovava i forti sentimenti dell’amore romantico, considerandoli nocivi alla libertà. E sull’argomento, confidò: “Il matrimonio è come una gabbia; si vedono gli uccelli chiusi fuori, che tentano furiosamente di entrare, e quelli chiusi dentro, che tentano furiosamente di uscirne”.
La morte lo incontrò mentre assisteva ad una Messa nella sua stanza, proprio nel preciso momento dell’Elevazione, il 13 settembre 1592. Il monumento sepolcrale, trasferito successivamente alla Facoltà di Lettere dell’Università di Bordeaux, che lo raffigura giacente e vestito di un’armatura da cavaliere, è adorno di due epitaffi, in latino ed in greco, che celebrano la sua saggezza, i suoi costumi, la sua eloquenza, il suo spirito, la sua fine.