Il colpo decisivo del Generale Kutuzov
I circoli dirigenti dell’aristocrazia russa deploravano quella ritirata, che avrebbe sicuramente aperto al nemico la strada per Mosca, e premevano sullo Zar perché sostituisse l’autore di quella riprovevole decisione, il Generale Michail Bogdanovič Barklaj-de-Tolli, più noto in occidente come Michael Andreas Barclay de Tolly. Tedesco del Baltico, nato a Pamūšis, il 24 dicembre 1761, discendente da una nobile famiglia scozzese stabilitasi in Livonia (odierna Lettonia) nel 1600, era un valorosissimo comandante, quello che organizzò la famosa tattica della “terra bruciata” dietro di sé. La sua nomina a Comandante in Capo delle Forze Armate, conquistata sul terreno di battaglia al prezzo del proprio sangue, venne fortemente ostacolata dallo Stato Maggiore, poiché lui era di origini straniere.
Nel maggio del 1812, Napoleone Bonaparte finalmente si decise. Lasciò Dresda, in Sassonia, e si recò ad incontrare la sua “Grande Armée”, come veniva chiamato il gigantesco esercito, composto da soldati di vari stati europei, per invadere la Russia. Disponeva di cinquecentomila uomini, una forza di impressionanti dimensioni, per quei tempi. I nemici ne contavano solo centottantamila. Per entrambi gli schieramenti, quella guerra si rivelò, fin dai primi momenti, oltremodo difficile. Barklay aveva fatto, intelligentemente, tutto il possibile per resistere ma, dati i rapporti di forze, la ritirata si era resa obiettivamente indispensabile, più per una dura necessità che per un preciso piano strategico. Era stata realizzata assai bene ed in quelle condizioni, di meglio non si sarebbe potuto fare. Il generale riteneva quella superiorità di uomini così sproporzionata che, se avesse spinto l’azione a fondo, avrebbe di certo rischiato la disfatta dell’intero contingente, anche se, ma non lo sapeva, l’avanzata napoleonica si presentava più che ardua, in quell’immensa e desolata distesa. All’entourage dello zar, però, quella fuga non piaceva affatto ed afferrando la palla al balzo, ne pretese la sostituzione con l’abile e più anziano Generale Kutuzov che, a sua volta, Alessandro I non gradiva, da quando si era scontrato, per delle critiche osservazioni rivoltegli alla vigilia della battaglia di Austerlitz. Certamente, al di là di ogni risentimento personale, si trattava di una validissima scelta, poiché Michail Illarionovič Goleniščev-Kutuzov, allievo, con il collega Pëtr Ivanovič Bagration, del famoso Feldmaresciallo Aleksandr Vasil’evič Suvorov, era senza dubbio il migliore dei generali dell’impero.
Principe di Smolensk, era nato a San Pietroburgo il 16 settembre 1745. Aveva preso parte a tutte le campagne combattute contro gli ottomani e contro la Francia rivoluzionaria, guidando l’armata nella terza coalizione. Nonostante le sue grandi doti di stratega, non riuscì però ad impedire la tragica sconfitta di Austerlitz (che, come visto, attribuiva ad errate scelte di governo), il 2 dicembre 1805, e ciò lo fece cadere in disgrazia agli occhi dello zar Alessandro I. Kutuzov non era soltanto un capo militare ed un veterano che aveva mostrato fermezza ed eroismo in cento battaglie, era anche uno stratega colto, calmo, equilibrato. Suvorov diceva di lui: “Come è intelligente, come è furbo! Nessuno riuscirà mai ad ingannarlo”.
Lo zar, cedette alle pressioni dei suoi consiglieri e lo sostituì, anche se di malavoglia. “Tutti hanno voluto la sua nomina”, dichiarò, “ed io l’ho nominato”. Di sicuro il nuovo comandante diede un ulteriore incremento alla guerra partigiana, che si svolgeva dietro le linee nemiche e quando il Corso, tramite il Generale Jacques Alexandre Law de Lauriston, protestò per la maniera irregolare con cui veniva condotta la guerra, pretendendo che si desse, alle operazioni militari, un carattere conforme alle regole stabilite dalla prassi bellica, cioè senza il coinvolgimento di donne ed anziani, Kutuzov gli fece rispondere che, in guerra, contro l’invasore, ogni mezzo di lotta era sacro e doveroso. Né quest’ultimo poteva sottovalutare lo stato d’animo che si era determinato nell’esercito e nel paese, uno stato d’animo assolutamente contrario alla ritirata e desideroso di riprendere i combattimenti. E così lo scontro iniziò, a Borodino, il 7 settembre 1812 e fu il più duro ed il più sanguinoso di quelli fino a quel momento affrontati. Tant’è che l’imperatore francese, la sera stessa, ordinò alle truppe di abbandonare il campo di battaglia, così come fece Kutuzov che, senza scorte di viveri di riserva, si diresse verso Mosca, contro la volontà dei suoi generali di non cessare la pugna. Attraversò la città senza fermarsi, portando con sé quasi tutta la popolazione rimasta. Quando vi giunse la cavalleria di Gioacchino Murat, la trovò silenziosa e deserta. Nella notte, incendi, che scoppiarono ovunque e durarono giorni, la incenerirono quasi completamente. Da Mosca, Napoleone fece pervenire delle proposte di pace ad Alessandro I, che però non rispose. Era divenuta una lotta per la vita o per la morte e lo zar, fin dal primo momento, aveva capito che non sarebbe potuta terminare con un compromesso. “Va combattuta fino in fondo!”, gridava e questo si deve ascrivere a suo merito.
Lasciata la città in fiamme, il generale russo, operando un’abile marcia, si preparò ad attaccare il fianco dell’esercito nemico, nel tentativo di accerchiarlo da sud. Anche il condottiero francese si rese conto, quindi, che la guerra non era finita e che bisognava svincolarsi, per uscire da una situazione di non ritorno. Marciò su Kaluga, con l’intento di assalire i depositi viveri dell’esercito di Kutuzov, il quale gli sbarrò la strada, ingaggiando scaramucce improvvise, logoranti e decisive, in prossimità di Malo Jaroslavets. Il Bonaparte fu costretto, ancora una volta, ad indietreggiare, sulla via di Smolensk, mentre tutto bruciava alle sue spalle e la guerriglia partigiana infieriva per ogni dove.
Era la fine della “Grande Armée”. Il gelo sopraggiunse, solo quando i francesi erano già da alcune settimane in ritirata. Incominciò a cadere la prima neve e la temperatura arrivò a toccare i 12 gradi sotto lo zero, anche se per cinque o sei giorni soltanto. Una difficoltà non lieve, per un esercito in rotta e non abituato al rigido clima dell’inverno russo ed alla vastità del territorio. Ma la causa principale della sconfitta non fu questa, bensì la controffensiva dell’esercito zarista ed una popolazione coraggiosa, determinata ed armata fino ai denti. Il passaggio del fiume Beresina, per le forze napoleoniche, avvenne sotto un violento e cruento attacco. Soltanto sessantamila uomini giunsero sull’altra sponda e la disfatta fu, a quel punto, completa ed inesorabile.
Ma in quei vecchi ed ottusi circoli governativi, i pareri furono, come sempre, confusi e discordi. Fermarsi alla propria frontiera, come suggeriva Kutuzov, o continuare a seguire i francesi in Europa? Lo zar decise di continuare la guerra, facilitata dal movimento di liberazione nazionale dei vari stati soggiogati dal Corso, anche se fu evidente che Alessandro ed i suoi alleati non pensavano tanto a dare un assetto indipendente alle nazionalità europee, quanto a riportare i monarchi legittimi sui propri troni. Nell’autunno del 1813, l’Armée napoleonica riportò un’altra clamorosa definitiva sconfitta, a Lipsia e, nel marzo del 1814, le truppe cobelligeranti, guidate dallo zar in persona, entrarono a Parigi. La monarchia dei Borboni veniva restaurata in Francia, Napoleone Bonaparte detronizzato ed inviato all’isola d’Elba. Per la spartizione dei territori riconquistati, fu convocato un congresso di regnanti europei a Vienna, presso il castello di Schönbrunn. Il simposio, che durò sette mesi e chiuse i battenti il 9 giugno 1815, aprì una nuova fase, nella vita politica europea, nella vita politica russa e nella vita stessa di Alessandro I, ispiratore, tra l’altro, del trattato della “Santa Alleanza”, firmato a Parigi il 26 settembre di quell’anno, al quale tutti gli stati cristiani furono invitati ad intervenire, per l’attuazione di una restaurazione legittima e la repressione del movimento democratico e popolare.
Stupidamente criticato per le sue tattiche temporeggiatrici, il Generale Michail Illarionovič Goleniščev-Kutuzov, Principe di Smolensk, stanco e gravemente malato, morì a Bunzlau, in Slesia, all’età di sessantasette anni, il 28 aprile 1813. Alessandro, si recò presso il suo capezzale, pochi minuti prima del suo ultimo respiro, nel tentativo, postumo e riparatore, di scusarsi con lui per gli innumerevoli e spiacevoli contrarti avuti. Il morente Comandante, con un fil di voce, replicò che quelle scuse dovevano essere rivolte, più che a lui, all’intero popolo russo, che difficilmente le avrebbe accettate.
Fu seppellito, dopo i solenni funerali, a San Pietroburgo, sua città natale. Non ebbe figli maschi e così ogni suo bene passò all’importante famiglia dei Tolstoj, con cui era imparentato e della quale il più famoso discendente, lo scrittore Lev Nikolàevič, nel suo celebre romanzo “Guerra e Pace”, lo volle celebrare, esaltandone le pregevoli doti militari, la lungimiranza dimostrata nelle difficili circostanze dell’invasione francese e la capacità di saper assecondare gli eventi e le volontà degli uomini, più che sovrastarli con il suo potere, sempre prudente e protettivo verso i soldati. È ricordato, ancora oggi, come uno dei più grandi comandanti della storia russa.
Durante la Seconda Guerra Mondiale, nel 1942, il Consiglio del Soviet Supremo istituì un riconoscimento, che tutt’oggi rappresenta una delle più prestigiose onorificenze miliari, denominato “Ordine di Kutuzov”.