Da sempre temute, ma da sempre desiderate (II ed ultima parte)
Abbiamo visto, a fine della prima parte, come la fanteria avesse un impellente bisogno di armi da fuoco, per poter fronteggiare l’impeto violento della cavalleria pesante. Comparve così il “moschetto”, la più grossa, portatile ed usabile da un solo uomo, che richiedeva però l’appoggio di una forcella, o forchetta, per il puntamento e lo sparo. Secondo fonti piuttosto attendibili, fu ideato, nel 1520, da un certo Mochetto da Velletri (di qui il nome), che sagomò il profilo della cassa in legno, per adattarla alla forma della spalla, razionalizzandone la mira. Nella battaglia di Pavia, il 24 febbraio 1525, Massimiliano d’Asburgo (1459-1519) impiegò trecento moschetti, che tiravano palle di due once fino a trecento passi, e duemila archibusieri. Falcidiò e sconfisse la cavalleria francese di Francesco I. Quell’evento ebbe una risonanza universale e sancì l’efficacia dell’archibugio e del moschetto, scatenando, con una reazione a catena la corsa, di tutti gli stati, all’accaparramento del maggior numero di armi da fuoco portatili.
Sorse una milizia veneta, la “Cernide”, composta da dodicimila uomini, dei quali quattromila “cum archibusi non grandi (i moschetti) et quattromila schioppettieri”. Anche Firenze impiantò un suo esercito, dotato di tremila unità, suddivise, oltre al seguito logistico, in circa millesettecento archibusieri e mille moschetti. L’istituzione di queste due milizie nazionali fu sicuramente agevolata da un addestramento, per l’impiego del fuoco, che si presentava rapido e semplice. Fioccarono valanghe di ordinazioni alle fabbriche (dove la Serenissima di Venezia fece la parte del leone), con innumerevoli commesse soprattutto a quella bresciana. Vennero impiantati nuovi polverifici ed in quasi tutti i comuni, sorsero aree adibite al tiro a segno. Per la cavalleria, i problemi sollevati dall’estendersi dell’impiego e dell’efficacia di tali armi, furono assai diversi. Mentre da una parte ci si rese subito conto dell’inutilità dell’armatura e della vulnerabilità del cavallo, usato come macchina da guerra, dall’altra si cercò di agevolarne resistenza e velocità, armonizzando queste preziose doti con l’impiego di armi da fuoco leggere. I giovani gentiluomini italiani, per desiderio di avventura, di gloria o per altri motivi, più impellenti che eroici, si arruolavano perché amavano militare a cavallo. Geniale fu, pertanto, l’idea di costituire un corpo di cavalleria leggera, armato di archibugio e di altri accessori, in grado di operare, sia montato che appiedato. La cavalleria pesante, denominata “gente d’arme”, corazzata ed usa a sfruttare la propria potenza d’urto trovò, nei nuovi sistemi di accensione meccanica, che permettevano di utilizzare armi da fuoco senza rinunciare alla cavalcatura, alla corazza ed alla tradizionale tattica di sfondamento, non poche difficoltà. L’adozione dei mezzi di offesa a canna corta e cortissima, come la pistola, il petrinale, la carabina ed il terzaruolo, utilizzabili con la sola mano destra, in luogo della lancia, rappresentò una soluzione parziale al problema tattico, per il loro effetto sorpresa, e rese popolari i robusti pistoletti a ruota, di foggia tedesca.
In seguito, le “corazzate”, ridotta gradualmente l’armatura al solo elmo, al petto ed alla schiena, trovarono sempre meno occasioni di utile impiego, continuando ad esistere, più per attaccamento alle tradizioni e per amore di coreografia, che non per convenienza di rendimento, utilizzando sistemi di fuoco detti “da arcione”, “da fonda” o “da bandoliera” e governabili con una sola mano.
Da non sottovalutare che la caccia risultò essere un fertile terreno sperimentale, dilettevole e senza rischi, per il progresso di questi sistemi di armamento. Fu l’esperienza maturata nell’attività non militare, a fornire agli armaioli i suggerimenti più preziosi. La “ruota” apparve, come si è detto, fin dall’inizio, meccanicamente ineccepibile. Abbandonata la foggia arcaica italiana, a mollone esterno, i fiamminghi ne adottarono una, alleggerita e caricata senza chiave. Ma, agli inizi del 1600, quella di ideazione bresciana ritornò a primeggiare per efficienza, leggerezza ed eleganza. Così come il “focile” o “azzalino” antico, ribattezzato poi “micheletto”, toccò la perfezione meccanica in Italia, evolvendosi nel cosiddetto “acciarino moderno”. Nel XVII secolo, infatti, nonostante le guerre devastatrici, le carestie o le pestilenze, l’arte nazionale nella fabbricazione di armi, ricca di esperienze tecniche ed ancora imbevuta del gusto artistico rinascimentale, raggiunse le più alte vette di maestria e di reputazione universale.
A questo florido sviluppo, si soprapposero severe leggi sulla composizione e sulla manipolazione delle polveri da sparo (plurale giustificato dalla varietà delle specie e degli usi), delle quali si era cominciato a studiare scientificamente il comportamento, che affidarono il monopolio della raccolta e della raffinazione del salnitro a persone professionalmente qualificate e sottoposte alla vigilanza di organi competenti, come i magistrati delle corporazioni e le scuole dei bombardieri. Non fu più ammesso produrla per conto proprio e tanto meno farne commercio senza licenza. Quelle in commercio erano, fin dall’inizio del secolo, ottime per miscela e dosaggio, provate dagli acquirenti con “provette” di vario tipo. Il loro potere detonante, ottenuto con costante e raffinata tecnica, consentì rapporti sempre più vantaggiosi tra il peso della carica e quello del proiettile, a parità di risultati, permettendo altresì un sensibile accorciamento delle canne, che dovevano, però, essere più resistenti alla pressione interna. Del resto, la leggerezza dell’arma, dipendendo da quella delle canne, donò snellezza ed eleganza di forme, da tutti imitate.
Con una legiferazione ad hoc, le armi corte ed addirittura cortissime, quindi facilmente occultabili, vennero ritenute strumenti insidiosi, il cui uso, per motivi di ordine pubblico, fu gestito da rigidi criteri che ne regolavano la lunghezza minima. Ad esempio, in Piemonte, la misura più ridotta delle “pistole curte”, fissata da Carlo Emanuele I “in tre quarti di raso” (45 cm. circa), nel 1623 fu portata a due terzi di raso e nel 1632 a mezzo raso (30 cm. Circa). Papa Urbano VIII, nel 1628, ordinò centinaia di pistole ad uno stabilimento di Tivoli, “anche se saranno più piccole e corte dell’ordinario”, dichiarando di fatto decaduta ogni precedente limitazione. Anche per le pistole, furono gradatamente ammessi i vantaggi della tecnica, che le rendeva sempre più funzionali, leggere e……tascabili.
Risultati non meno importanti e, sotto taluni aspetti, decisivi si ebbero dall’ulteriore perfezionamento degli accenditori. La ruota, con l’eccezionale successo, non era riuscita ad eliminare i gravi difetti propri della sua natura, legati ad un meccanismo complesso e delicato, che richiedeva lentezza nel caricamento e, soprattutto, un alto costo di realizzazione. L’acciarino era sicuramente più “moderno”. Del resto, l’aumentata richiesta di armi, per far fronte alle reali contingenze di vita, non sempre pacifiche, stimolarono la capacità inventiva degli interessati, sia perché l’accaparramento delle forniture eccitava l’emulazione, sia perché il commercio con i privati era avido di ogni novità. Ciò che ossessionava la genialità inventiva di tanti archibusari era la realizzazione di un rivoluzionario modello a “retrocarica” e la conseguente “ripetizione” dei colpi. Un tale Giuliano Bossi pensò ad un tamburo camerato, rotante a mano, dotato di due camere precaricate, con la culatta ed i rispettivi foconi automaticamente innescati, “ad ogni alzar del cane”. Oppure, due o più canne rotanti, sempre a mano, adeguatamente imperniate alla “nocca”, ciascuna provvista di una propria batteria di proiettili, percossa a turno da un solo dente. Erano capolavori di ingegnosità, maneggevolezza e raffinatezza (molto simili ai nostri moderni “sovrapposti”), che richiedevano ancora di tantissimo tempo e studio, per essere realizzati.
In ogni caso, agli inizi del 1700, l’armamento degli eserciti, soprattutto delle fanterie, si basava ormai esclusivamente sulle armi da fuoco. Le lance andarono scomparendo e solo alcuni reparti di cavalleria continuavano ad usarle. Ed ancora una volta si intensificarono i perfezionamenti sulle canne. Se ne ottennero di leggerissime, che potevano essere agevolmente affiancate o sovrapposte, senza appesantire l’arma, dando la possibilità di disporre di due colpi in successione immediata, arricchite da una rigatura interna elicoidale, che si dimostrò un fattore essenziale per la stabilità della traiettoria. Vennero sperimentate, con un certo successo, armi con canne amovibili, da avvitare alla culatta, dopo essere state caricate. Il proiettile, ancora a palla, doveva avere un calibro maggiorato, del tanto per fare presa nelle righe. Questi “gioiellini” furono molto popolari, in Inghilterra, con il nome di “turn-off” ed ebbero una certa diffusione anche nel continente.
Tutte genialità che non riuscirono, però, a risolvere l’insormontabile l’annoso problema della retrocarica, problema che sarà eliminato solo verso il finire del secolo successivo. L’ostacolo principale risiedeva nella chiusura della culatta a tenuta di gas. Fu superato definitivamente, per le armi portatili, solo con lo sviluppo della cartuccia metallica, mentre per i grandi calibri di artiglieria la svolta si ebbe con la creazione dell’otturatore a vite interrotta. Una carabina a retrocarica venne sperimentata, nel 1770, dall’orologiaio milanese Giuseppe Crespi. L’arma fu adottata dalla cavalleria austriaca e rimase in dotazione fino al 1779. Veniva fabbricata a Ferlach, in Carinzia, sotto la diretta supervisione dello stesso Crespi. Ed ancora. Sistemi a retrocarica, proposti al governo sardo, provenivano dalla trasformazione del fucile Mod. 1752, operata da un certo Anton Maria Curiazio, di Voghera, ma non vennero mai adottati, per insufficiente chiusura.
Il vecchio acciarino, migliorato nello scodellino contro l’erosione e divenuto a prova d’acqua, fu corredato di un dispositivo antifrizione. I privati, favoriti dal costo sempre più accessibile e da minori limitazioni di legge, si dedicarono ad attività sportive, quali la caccia ed il tiro a segno, detto “gioco dell’arcobuso” o “tiro al pappagallo”. I maestri archibusieri riuscirono a saldare le canne fra loro, con una bindella interposta, partendo da una fusione a stagno ed arrivando a quella in ottone. La “doppietta”, comparsa nel 1738, si dimostrò uno strumento indispensabile per la caccia.
Nell’ultimo ventennio del XVIII, prese sempre più piede il cosiddetto “combattimento a due”, un aspetto della vita sociale dell’epoca, che interessò e coinvolse fortemente l’arte delle armi da fuoco. L’usanza del duello, divenuta in breve tempo una moda sfrenata, si era talmente diffusa, che un set di pistole da “singolar tenzone”, era considerato parte indispensabile ed integrante dell’equipaggiamento di un gentiluomo. Era regolato da norme, non sempre riconosciute dalla legge ordinaria, ma definite da quelle del “bon ton”, universalmente condivise ed osservate in determinati ambienti sociali.
Il XIX secolo sconvolse completamente il mondo delle armi da fuoco, gettando le basi di sistemi meccanici che, nonostante le continue evoluzioni, sono rimasti quasi inalterati, fino ai nostri giorni. Ma questa è un’altra storia.