Una storia nella storia: il coraggio dei fratelli Cervi

Ci sono storie nella storia che non possono e non devono essere dimenticate.
I fatti sconvolgenti della Seconda guerra mondiale che hanno profondamente cambiato non solo il nostro Paese ma il mondo intero, nascondono tra le loro pieghe storie di coraggio ed eroismo, storie che forse non tutti conoscono, ma che meritano sicuramente di essere raccontate per ricordare quanti hanno perso la vita non solo combattendo al fronte, trascinati in una guerra assurda da ideologie e alleanze suicide e catastrofiche, ma anche per richiamare alla memoria tutti quelli che non si rassegnarono al volere di chi “aveva marciato su Roma” consegnando la nostra bella Italia ad un triste e crudele destino.
Una di queste storie è sicuramente quella dei fratelli Cervi, per la precisione e per doveroso omaggio, quella di Gelindo, Antenore, Aldo, Ferdinando, Agostino, Ovidio ed Ettore.
E’ la storia di una famiglia italiana integerrima che aveva allineato i suoi valori a quelli della democrazia, della libertà e della giustizia sociale, da sempre. Già il nonno dei fratelli Cervi, Agostino, fu uno dei capi della rivolta contro la tassa sul macinato nel 1869, una tassa iniqua che gravava sui contadini e per questo fu arrestato e finì in carcere per sei mesi. Il papà dei ragazzi Cervi, Alcide, aderì da giovanissimo al movimento popolare, influenzato dal socialismo Umanitario di Prampolini. Contadini certo, ma con grandi idee, lettori appassionati e con sete di conoscenza.
Leggevano molto i Cervi, accumulavano sapere e libri, tanto che decisero di creare anche una biblioteca popolare pubblica e gratuita, convinti che i libri rappresentassero un modo per aprire la mente, pensare fuori dagli schemi imposti dal regime e potessero diventare compagni per difendersi dallo sfruttamento.
Si erano stanziati, nel 1934, nel podere Campi rossi, tra Campegine e Gattatico nella pianura emiliana, un terreno pieno di buche, pietre e gobbe da livellare per rendere coltivabile.
La loro emancipazione sociale passava attraverso il duro lavoro dei campi e l’innovazione delle stalle. Lavoravano di giorno e studiavano di notte con la stessa dedizione. E applicavano al loro lavoro la conoscenza acquisita dai libri: adottarono le più moderne tecniche agricole di quei tempi, riorganizzarono la stalla per migliorare la produzione di latte, allevarono piccioni e api che fornivano un finissimo miele.
Furono i primi a coltivare in Emilia l’uva americana e comprarono, nel 1939, il primo trattore della zona, una macchina rivoluzionaria per quei tempi, che sostituirono presto con l’ancor più moderno trattore “Landini” dopo appena due anni. Allargarono anche la casa del podere perché la famiglia si era allargata con l’arrivo di quattro spose e dieci bambini.
Nel giro di dieci anni avevano cambiato la loro esistenza, da mezzadri ad affittuari, padroni del proprio lavoro, delle proprie idee e del proprio destino.
E il destino dei Cervi non poteva non intrecciarsi con quello della Seconda guerra mondiale e della Resistenza in particolare. Aldo fu il primo a maturare una profonda coscienza antifascista, ma ben presto fu seguito da tutta la famiglia che comprendeva anche la madre Genoveffa e due sorelle.
Da subito avevano espresso dissenso verso i fascisti e la guerra e non nascondevano certo le loro idee. Durante la guerra il loro casolare divenne rifugio per chi scappava dai campi di prigionia, come il russo Anatolij Tarasov, che divenne compagno dei Cervi e partigiano della resistenza.
Il 25 luglio del 1943 con la caduta del fascismo, la famiglia Cervi organizzò una grande festa: sull’aia della casa furono cotti dieci quintali (!) di pasta asciutta offerta a tutta la popolazione.
La loro attività antifascista si intensificò ancor più dopo la firma dell’Armistizio l’8 settembre e l’occupazione nazista in Emilia e trasformarono la loro cantina e il loro fienile in ritrovo e rifugio per partigiani e fuggiaschi.
A meno di un mese dall’8 settembre, “la banda Cervi” seguì la Resistenza in montagna, partecipando ad azioni di altura e ad alcuni colpi in pianura. Dopo alcuni giorni, i figli di Alcide e Genoveffa decisero di tornare nella tenuta Campi Rossi e continuare la loro lotta attraverso la stampa clandestina e nascondendo le armi per i partigiani.
La loro lotta proseguiva con sempre maggiore slancio e fervore e non passò inosservata agli occhi dei gerarchi fascisti che all’alba del 25 novembre accerchiarono il casolare della famiglia Cervi.
Ne seguì un conflitto a fuoco a colpi di mitraglia tra fascisti e gli assediati che non avevano la minima intenzione di arrendersi. A mettere fine alla sparatoria e all’assedio, fu l’incendio scoppiato nel fienile adiacente la casa e appiccano dai fascisti. Per timore che il lavoro di anni andasse in fumo, ma soprattutto per la paura che bambini e donne potessero morire bruciati, i fratelli Cervi si arresero.
Vennero catturati e condotti nel carcere dei Servi a Reggio Emilia, dove furono interrogati e seviziati. Stessa sorte toccò al padre e ad alcuni compagni di lotta. La casa della famiglia Cervi fu completamente bruciata dai fascisti e le donne e i bambini abbandonati in strada.
Durante gli interrogatori, i fascisti non riuscirono a ricavare nessuna notizia o informazione utile e si racconta che chiesero ai fratelli di arruolarsi nella Guardia Repubblicana per aver salva la pelle e tornare alle loro famiglie. Ma nessuno di loro accettò, nemmeno chi era sposato e aveva figli, come Gelindo che ne aveva un altro in arrivo e che non vide e conobbe mai.
I fratelli Cervi furono condannati a morte e fucilati al poligono di tiro di Reggio Emilia alle 6.30 del mattino del 28 dicembre 1943.
Alcune ricostruzioni collocano l’eccidio dei Cervi in altra ora, ma quello che le accomuna tutte è che per la fucilazione di questi valorosi fratelli, le autorità fasciste preferirono svolgere la loro azione con “discrezione”, e che da Brescia, dove si erano stanziate le istituzioni della neocostituita Repubblica di Salò, arrivò un breve verbale con una sola domanda “Sono 7 fratelli?’”….
Non fu avvisato nemmeno il padre, ancora prigioniero, della fucilazione dei suoi ragazzi, che seppe della loro tragica fine quando fu liberato e tornò a casa. Le sue parole furono “Dopo un raccolto ne viene un altro, bisogna andare avanti”.
E avanti la famiglia Cervi è andata, senza la mamma però morta di dolore qualche mese dopo.
Dopo la guerra sul petto del vecchio padre Alcide furono appuntate sette Medaglie d’Argento per il sacrificio dei suoi figli. Lui, “Cide” come era chiamato, ha viaggiato in tutto il mondo per raccontare la storia dei suoi ragazzi. È morto nel 1970 a 94 anni e al suo funerale hanno partecipato oltre 200mila persone. La casa della famiglia Cervi a Campegine è diventata un museo che racconta storie di lavoro e di agricoltura, ma soprattutto racconta storie di antifascismo, di Resistenza e di coraggio. Il coraggio di sette fratelli. I fratelli Cervi.

Condividi questo articolo qui:
Stampa questo post Stampa questo post