“The Conqueror”
Al tramonto della sua esistenza, era padrone indiscusso d’Inghilterra. Aveva sottomesso il Galles, ridotto il re degli Scozzesi al rango di vassallo e, come scrisse uno storico suo contemporaneo, “se fosse vissuto altri due anni avrebbe occupato anche l’Irlanda”. Aveva intimorito i cuori dei nemici ed ispirato rispetto ai sudditi. Venne descritto come un grande monarca biblico, un uomo particolarmente saggio, più forte di qualunque altro sovrano britannico venuto prima. Era duro, oltre misura, contro tutto ciò che si opponeva al suo volere ed amabile con gli uomini buoni, “quelli che amavano Dio”. Severo e senza pietà, dissero, solo per preservare la pace nel suo paese. Aveva abolito la pena di morte, anche per i casi più efferati di omicidio, ma, contro gli attentati alla castità femminile, stabilì, per i colpevoli, la pena della mutilazione “intima”.
Guglielmo, detto il Bastardo, conosciuto come il “Conquistatore”, nacque a Falaise, un paesino francese del nord, l’8 novembre 1028. Figlio naturale del Duca di Normandia, Roberto I, successe al padre, nel 1035, con il nome di Guglielmo II e, nel 1066, ascese al trono d’Inghilterra, con quello di Guglielmo I, dopo la straripante vittoria nella battaglia di Hastings, battendo il re sassone Aroldo II. L’evento fu raccontato, sotto forma di ricamo, su una striscia di stoffa lunga settanta metri, nota come “Arazzo di Bayeux” e conservata, inizialmente, nella cattedrale della città, prima di essere trasferita nel “Musée de la Tapisserie”, ad Aubusson, uno dei massimi centri di produzione di arazzi al mondo, nella regione della Nuova Aquitania. La straordinaria opera, venne anche chiamata “Telle du Conquest” e “Tappezzeria della Regina Matilde”, perché proprio lei, che diede al regale consorte ben dieci figli, ne ordinò la realizzazione. L’arazzo, la più attraente ed informativa registrazione contemporanea dell’invasione, fu lavorato in Inghilterra, da abili ricamatrici locali, sebbene gli uomini, che descrissero dettagliatamente scene e personaggi, fossero senza alcun dubbio solo normanni. La conquista, uno degli eventi più importanti della storia britannica, cambiò definitivamente il futuro di quel paese. Da remoto regno isolano, lambito dai mari del nord, diviso tra sassoni e danesi, periodicamente minacciato dai bellicosi re scandinavi, divenne uno stato anglonormanno, unito sotto il fermo governo del primo Guglielmo. Venne, così, forgiato l’anello vitale della lunga catena di circostanze, che fece dell’Inghilterra, una nazione per sempre legata, fosse pure dalle guerre, alla Francia ed all’Europa occidentale. I rapporti con i popoli del nord, stretti sotto l’impero anglo-danese-norvegese dal sire norrèno (norrèni, gli antichi abitanti della Scandinavia) Canuto II di Danimarca e I d’Inghilterra, vennero decisamente interrotti. E le nazioni, quella inglese e quella scandinava, sebbene così fortemente unite, per consanguineità e simpatia, non furono mai più governate da una comune monarchia. Inoltre, l’introduzione della lingua galloromanza, diversa in parte da quella francese, e dei nuovi usi e costumi, quelli stessi acquisiti poco più di un secolo e mezzo prima, quando i vichinghi di Rollone, il primo Duca di Normandia, accettarono la conversione al cristianesimo, cambiarono fortemente il carattere della nazione d’oltremànica, anche se i rozzi festini dei guerrieri sassoni e danesi di Aroldo, il loro amore per i brindisi ed il canto, rimasero una sua incontaminata peculiare caratteristica, giunta fino ai nostri giorni. Così, come le asce di guerra degli “Huscarli” (guardie del corpo dei regnanti nordici), ad Hastings, lasciarono il campo alle lance ed alle spade dei conquistatori, anche il suo aspetto, in tempo di pace, subì dei notevoli mutamenti. L’arrivo di una folta schiera di monaci e di cavalieri normanni, ricchi di cordiale familiarità con molte città italiane e francesi, la costruzione di fortezze e chiese in pietra, l’esposizione di teste ben pettinate e di visi ben rasati, l’abitudine di bere vino e mangiare sofisticatamente, dettero, alla malleabile scena anglosassone, una varietà ed un vigore, che le erano da sempre storicamente mancati. Gli invasori, razza di guerrieri, di sacerdoti e di amministratori, non erano accompagnati, di certo, dal gusto dell’arte poetica, letteraria e decorativa, paragonabile a quelle già esistenti nella terra d’Albione. Sia Guglielmo, che il figlio Rufo, fecero ricorso agli orafi cesellatori Teodorico ed Ottone, ambedue artigiani di religione teutonica, da tempo lì residenti. Memorabile fu lo stupore e l’ammirazione, che suscitarono i fastosi abiti, ricamati d’oro, indossati dal corteo che accompagnò il sovrano, al suo primo ritorno trionfale nella patria d’origine, ed i paramenti sacri, incastonati di pietre e gemme preziose, che lo stesso monarca volle regalare alle chiese d’Inghilterra. Però, quel popolo portò con sé una singolare abilità nella realizzazione di imponenti strutture architettoniche. Sorsero, in aggiunta a numerosi castelli e fortezze, tra cui la maestosa “Tower of London”, una serie notevole di cattedrali in stile romanico, di gran moda in Francia, soprattutto nella regione normanna. E tornando alla lingua, quella francese romanza, riservata, durante il regno di Guglielmo, ai cavalieri ed alle dame di corte della nuova aristocrazia ed agli inglesi, di ogni classe sociale, in diretto contatto con i nuovi occupanti, venne gradualmente acquisita da tutti. Da parte loro, i nuovi giunti, quelli della prima generazione, ispirati probabilmente all’esempio del Conquistatore, impararono, anche se con iniziale titubanza, la lingua locale. Guglielmo di Normandia, che lo si citi in francese o in inglese, Guillaume le “Conquérant” o William “the Conqueror, fu unico, tra i regnanti britannici, perché il solo a farsi re per via di conquista. Mai prima, e mai anche dopo, un sovrano era riuscito a governare, vincitori e vinti, con una mano tanto ferma e giusta. Dette nuove leggi al paese, senza azzerare quelle precedenti, instaurò un governo centralizzato, un sistema di difesa militare, basato sull’affitto della terra, e mantenne vivo il controllo regionale, antico retaggio del sistema giudiziario britannico. All’inflessibile risolutezza, alla straordinaria forza di carattere, all’ampia visione del potere come di una scienza intrinsecamente legata al dovere, e ad una tranquilla fede nel proprio destino, come strumento del volere divino (concezione diversa dal Diritto divino dei re Stuart), Guglielmo dovette la sua elevazione, ripetiamolo, su tutti i predecessori ed i successori. Il suo credo ostinato nella propria missione, fu comprensibilmente figlio di un’infanzia, da bastardo, oppressa da minacce, nonostante la provvidenza sembrasse vegliare su di lui, per guidarne i passi e proteggergli il cammino. Divenne, per le generazioni che seguirono, “Guglielmo il Grande”, un titolo del tutto giustificato. E quando la fortuna sembrò abbandonarlo, seppe affrontare le avversità, con nobile vigore. Vi fu una nota di grandezza in tutto ciò che intraprese, in tutto ciò che realizzò. E vi fu una nota di grandezza anche nei suoi errori.
Aveva sessant’anni quando morì, nel ventunesimo da regnante d’Inghilterra e nel cinquantaduesimo dacché il padre, Roberto il Magnifico, gli aveva lasciato il Ducato di Normandia. Era il 9 settembre 1087. Mentre contemplava il rogo della città francese di Mantes, in sella al suo destriero, rischiò di essere disarcionato, per un’improvvisa impennata dell’animale. Riuscì a non cadere, anche se impacciato dal volume dell’armatura, che ricopriva la pesantissima cotta di maglia di ferro, ma, per il contraccolpo, sbatté violentemente contro il pomo della sella, ferendosi gravemente. Dolorante, venne dai suoi immediatamente trasportato nel Convento di San Gervasio, a Rouen. Una peritonite, causata dalla forte contusione, non gli consentì di vivere ancora.
Un monumento, con rifiniture d’oro, d’argento e di pietre preziose, opera di Ottone l’Orefice, venne eretto sulla sua sepoltura, a Caen, per l’affetto, se non la devozione, del figlio Guglielmo Rufo. Vi fu incisa un’iscrizione, in latino ornato, composta da Tommaso, vescovo di York. La tomba, profanata nel corso dei secoli ed il sepolcro originale, con le sue gemme, non esistono più. Il sarcofago, aperto nel 1152, per soddisfare la curiosità di un cardinale italiano e di due vescovi, evidenziò che le sue spoglie mortali erano meravigliosamente conservate e la sua fisionomia ancora così distinta, da permettere che ne fosse fatto un ritratto. Dieci anni più tardi, durante le sanguinose guerre di religione, l’urna fu spezzata, il cadavere smembrato e disperso. Un monaco riuscì a nascondere un femore, “un terzo più lungo del normale”, raccontò, ed altri resti, ma nulla sopravvisse alla furia rivoluzionaria del 1789.
Oggi, solo un modesto simulacro ed una semplice epigrafe, nella chiesa di Santo Stefano, le cui torri gemelle, sottili e forti, si alzano sulla moderna città di Caen, a costante illustrazione del suo carattere. Ed una gigantesca statua, nella nativa Falaise, onora la tracotante memoria di Guglielmo il “Conquistatore”.