Molto più che filosofo
Nell’antichità, la filosofia, più che una dottrina, era un modo di vivere che distingueva gli uomini, l’uno dall’altro. Si diventava filosofi, attraverso una vera “conversione”, un radicale cambiamento. Chi aspirava ad esserlo, ricercava, di scuola in scuola e, spessissimo, di città in città, un maestro, “il maestro”, che lo convertisse, definitivamente, con la sua personalità ed il suo insegnamento. Una volta trovato, si attaccava a lui, viveva con lui, si sottometteva alla sua direzione spirituale, praticava l’ascesi.
È ciò che accadde anche ad un certo Plotino (in greco Πλωτῖνος), un personaggio del tutto ignorato dalla divulgazione storica di massa, eccezion fatta per una stretta cerchia di addetti ai lavori, e forse uno dei più importanti filosofi dell’antichità. Era nato in Egitto, a Licopoli, nel 204 d.C., e da giovanissimo aveva affannosamente cercato, ad Alessandria, un precettore. Ma se ne andava via, però, dalle lezioni di tutte le “celebrità” di allora, sconcertato ed amareggiato. Si confidò con un compagno, che capì quali erano le sue aspirazioni e lo condusse dal filosofo Ammonio. Quando udì parlare, disse a quello stesso amico: “Ecco l’uomo che cercavo!”. Non spiegò mai cosa fu a provocare in lui quell’entusiasmo. Molto probabilmente, secondo Origene di Alessandria, detto il “Padre della Chiesa”, che fu un suo scolaro, Ammonio aveva, ad un grado elevato, il potere di stimolare le anime e nutriva l’ideale di una filosofia, come ricerca collettiva, una “Symphilosophia”. Ecco perché i suoi più importanti discepoli, Erennio, Origene e lo stesso Plotino, si impegnarono a non pubblicare assolutamente nulla, dopo la sua morte.
Giunto a Roma, nel 244, sotto l’impero di Marco Giulio Filippo Augusto, Plotino aprì, a sua volta, una propria scuola filosofica. All’inizio, il suo insegnamento cavalcò quello di Ammonio, poi, a poco a poco, acquistò fiducia in sé stesso ed il numero dei suoi uditori si accrebbe, facendo sì che quella creatura filosofica diventasse il centro di un vasto movimento di pensiero. Come qualsiasi altra accademia, comprendeva sia discepoli liberi da ogni impegno, che adepti (zolotai), tutti, comunque compagni (hetaroi) fedelissimi. Fra gli adepti, spiccava il nome di Amelio, che gli rimase accanto per ventiquattro anni, quasi fino alla fine. Sfortunatamente, le opere di costui, di considerevole mole, sono andate quasi completamente distrutte. Aveva scritto cento libri di note, tutte prese durante le lezioni di Plotino. A quanto sembra, il nostro pensatore dava molta importanza all’abbandono della vita politica, per quelli che volevano veramente convertirsi alla filosofia. Secondo uno schema elaborato nella sua scuola, e che Porfirio, un filosofo greco, suo contemporaneo, espose sistematicamente, esisteva una gerarchia di virtù, che corrispondeva al progresso nella vita filosofica. Le più infime erano quelle dell’uomo politico. L’inizio della vita filosofica era segnato dall’abbandono degli affari pubblici e delle cure umane, per arrivare, così, ad un grado superiore di doti, quelle purificatrici. Ancora più in alto, erano collocate le preziosità delle anime purificate e, in cima a tutte, quelle delle anime divenute identiche all’Intelligenza Pura. Emergono tracce di questa distinzione nell’elencazione, che Porfirio diede degli autori e dei discepoli di Plotino. Un medico, Zethus, ad esempio, aveva il gusto della politica e Plotino si sforzava di dissuaderlo. Benché fosse un adepto, era rimasto al primo grado di virtù. Un tale Castrizio Firmo, a sua volta, preferiva la vita politica al cosiddetto “otium philosiphicum”, ma praticava il vegetarianismo. Il Senatore Rogaziano, che dopo essere stato uditore, volle essere adepto, era talmente progredito nel distacco dalla vita terrestre che, improvvisamente, liberò tutti i suoi schiavi, rinunciò al titolo e smise di abitare la sua lussuosa casa, preferendo dimorare presso degli amici. Mangiava ogni due giorni e la cosa, casualmente, gli tornò assai utile, dal momento che riuscì a guarire dalla subdola gotta.
Leggendo Porfirio, si ha l’impressione che Plotino vivesse costantemente circondato da un foltissimo stuolo di persone. Dimorava presso una giovane, tale Gemina, anch’essa convertita al suo pensiero. Aveva presso di sé numerosi fanciulli, che gli erano stati affidati, sul punto di morte, da uomini e donne delle migliori famiglie romane, perché ne fosse il tutore e si preoccupasse della loro educazione e, soprattutto, del loro patrimonio. Assunse quel compito con molta coscienza, esaminando scrupolosamente i conti presentati dai servitori dei ragazzi. Partiva dal principio, che non tutti gli uomini erano destinati a diventare dei filosofi e bisognava quindi conservare intatti i beni e le rendite dei suoi pupilli, che più tardi avrebbero condotto una vita mondana e si sarebbero dedicati alla politica. In quella casa viveva anche una certa Chionè, una vedova circondata dai suoi figli, di cui Plotino aveva ritrovato una preziosa collana, rubatale da uno schiavo, conquistando la sua riconoscente fiducia. Insomma, attorno a lui un grosso movimento di personaggi, ragazzi, ragazze, uomini, donne, discepoli, tutti bramosi del suo sostegno spirituale. Come faceva notare Porfirio, benché egli si preoccupasse costantemente di assistere tutte quella moltitudine negli affari della vita quotidiana, non lasciava neppure per un attimo, che la costante tensione del suo animo venisse meno.
Plotino esercitò una sostanziale e concreta influenza politica nella Roma imperiale e fu, sempre, a stretto contatto con l’ambiente senatoriale. Nei ventisei anni trascorsi nell’Urbe, fu arbitro in innumerevoli questioni e, incredibilmente, non ebbe mai nemici tra gli uomini politici. Era in eccellenti rapporti anche con l’imperatore, Publio Licinio Egnazio Gallieno, famoso per la sua riforma dell’esercito, nonché valente condottiero, e con sua moglie Salonina. Cercò di sfruttare il favore del sovrano, per realizzare un programma, che maturava da tempo, quello di ricostruire una fatiscente città, della quale si disconosce il nome, in Campania. Plotino voleva trasferirsi in quel luogo, con i suoi compagni, per viverci secondo le leggi di Platone, chiamandola Platonopoli. Il progetto non fu portato avanti, per la tenace opposizione dei consiglieri dell’imperatore.
Cosa voleva esattamente Plotino? Presumibilmente sognava di applicare alla lettera la costituzione, che Platone aveva delineato nelle “Leggi” (Νόμοι), opera ultima e più corposa. Platonopoli sarebbe stata una città circondata da un territorio attiguo, con le stesse dimensioni di un’antica città ellenica. I filosofi ne sarebbero stati i governatori, con la realizzazione di tutti i dettagli previsti dal pensatore greco. Cinquemilaquaranta capi famiglia, con la residenza in città ed un piccolo lotto di terreno in campagna, dodici tribù, quattro classi censitarie, un minuzioso regolamento per la religione, per il matrimonio, per l’impiego del tempo libero dei cittadini. Nei frammenti delle opere scritte da Plotino, non è mai stata trovata nessuna indicazione sull’ideologia politica di Platone, se non un’amara riflessione, forse completamente avulsa dal tema: “Se i peggiori sono al governo, ciò avviene per la viltà dei loro soggetti [lett.]. Di certo deve aver pensato che quell’ideale doveva, invece, essere messo in pratica pedissequamente, per sognare di costruire Platonopoli. Ma fu sicuramente un bene, che i consiglieri di Gallieno abbiano fatto fallire quel sogno, un sogno utopistico, che si sarebbe molto velocemente dissolto, al risveglio con l’amara realtà.
Infatti, a partire dal 268 d.C., Plotino sprofondò sempre più nella percezione della solitudine che precede la morte. L’Imperatore venne assassinato (gli successe Claudio II), Porfirio ed i suoi discepoli lo abbandonarono. Incominciarono ad apparire i primi sintomi di una malattia, che inesorabilmente lo avrebbe condannato. Le mani ed i piedi si coprirono di ulcere, la voce si spense e gli occhi divennero sempre più deboli. Tutti coloro che casualmente lo incrociavano, evitavano, timorosi, di abbracciarlo, come fosse un appestato. Decise così, nel 269, di lasciare Roma e di ritirarsi in Campania, nelle terre dell’ormai defunto Zethus, vicino ai possedimenti di Castrizio Firmo. L’inizio della sua agonia, lo trovò completamente solo. Arrivò da lui, inaspettatamente, un vecchio discepolo, il medico Eustochio. Plotino ebbe la forza di sussurrargli: “Vedi, ti aspetto ancora. Mi sforzo di far salire ciò che di divino è in me, verso ciò che di divino c’è nell’universo”. In altre parole, la sua anima si stava ricongiungendo all’anima del mondo, si stava confondendo con l’anima del mondo. Era l’Anno Domini 270 ed accadde a dodici chilometri da Minturno, abbandonato da tutti, fuorché dall’unico amico, giunto appena in tempo.