Ricognizione della giurisprudenza che contribuisce ad identificare i limiti entro i quali le PP.AA. possono emanare regolamenti indipendenti compatibilmente col principio di legalità
Un profilo problematico riguarda l’identificazione dei limiti entro i quali le PP.AA. possono emanare regolamenti indipendenti avendo come parametro di riferimento il rispetto del principio di legalità. Limiti che possono essere individuati andando anche ad analizzare l’ampia giurisprudenza costituzionale, amministrativa e ordinaria.
Prima di affrontare tale questione, si rende necessario ricordare alcuni passaggi preliminari, indispensabili per la comprensione del suddetto problema.
In tema di sindacato di costituzionalità su norme regolamentari la giurisprudenza non conosce univocità.
Invero, anche solo volgendo lo sguardo al recente passato, si può riscontrare come il tema della ‘giustiziabilità dei regolamenti’, sia considerato uno delle tradizionali zone d’ombra della giustizia costituzionale.
L’art. 134 della Costituzione e le leggi costituzionali successive hanno escluso, com’è noto, l’assoggettamento dei regolamenti al sindacato della Corte Costituzionale, limitandone l’operatività solo nei confronti della normazione primaria.
Tuttavia, già all’indomani dell’entrata in vigore della Costituzione, la dottrina si era interrogata sull’opportunità di estendere il sindacato di legittimità della Corte ai regolamenti, sia per evitare che questi, pur se illegittimi, divenissero intangibili in caso di mancata tempestiva impugnazione da parte degli interessati, sia perché si riteneva che la Corte fosse l’organo più adatto a verificarne la legittimità.
La Corte Costituzionale, sessant’anni fa, con sentenza n. 30 del 1957, concernente i diritti per le bombole di metano, dichiarò: «manifestamente inammissibile la questione di legittimità impostata con oggetto esclusivamente norme regolamentari». La Corte, nel sentenziare l’inammissibilità della questione, affermò che: «l’art 23 della Costituzione non ha riguardo alla natura giuridica dell’obbligo corrispondente al pagamento di una determinata somma, che gravi su un privato, o comunque su un soggetto diverso da una pubblica amministrazione. Ha riguardo, invece, solamente al fatto che la prestazione che abbia per oggetto un’attività del soggetto sia imposta dalla legge». La Corte, sempre nella sentenza, ribadisce il significato dell’art. 23 della Costituzione, chiarendo che: «il significato specifico dell’art. 23 sta nello stabilire che nessuna prestazione, né personale, né patrimoniale, può essere imposta ai privati, ove essa non trovi una base nella legge». Ha precisato anche che: «non è necessario che tutti gli elementi della prestazione siano analiticamente indicati dalla norma legislativa. La norma legislativa può lasciare anche alla pubblica amministrazione la potestà di determinare, essa, alcuni degli elementi mancanti. Tuttavia, dal contesto delle disposizioni della legge, si deve desumere l’esistenza di limiti che contengono l’esercizio del potere che l’amministrazione abbia».
La Corte Costituzionale, con sentenza n. 23 del 1989, confermò successivamente l’inconcepibilità di un potere regolamentare ‘libero’, escludendo la sottoposizione alla giurisdizione di costituzionalità di una fonte secondaria. In tale sentenza, la Corte affermò il principio secondo cui: «finché l’evoluzione storica del sistema costituzionale, pur nel crescente pluralismo delle forme di produzione normativa, conserverà l’attuale configurazione monistica di forma di governo, con potere legislativo riservato al Parlamento e non riconosciuto in via originaria e concorrente anche all’esecutivo o ad altri organi, il controllo, demandato a questa Corte, dall’art. 134 della Costituzione deve intendersi limitato alle sole fonte primarie».
La Cassazione civile, sez. lav., con sentenza n. 8604 del 1992, concernente gli impiegati e agenti delle Ferrovie dello Stato, stabilisce che: «i provvedimenti emanati dal Ministro dei trasporti in forza della specifica competenza attribuitagli dall’art. 208 della l. 26 marzo 1958 n. 425 sono inquadrabili nella categoria dei regolamenti indipendenti o liberi, che costituiscono atti di normazione secondaria aventi forza di legge ed idonei, pertanto, nell’ambito loro riconosciuto, ad innovare – col solo limite del rispetto della costituzione e dei principi dell’ordinamento – rispetto alle regole fissate con norme primarie».
Il Consiglio di Stato, sez. VI, con sentenza n. 417 del 1981, ha affermato che: «siano consentiti o no nell’ordinamento generale dello Stato i cd. regolamenti indipendenti, è oltremodo dubbio che nell’ordinamento regionale ed in quello delle province autonome precetti primari possano essere posti con atti che non siano anche formalmente legislativi».
Il Consiglio di Stato, sez. VI, con sentenza n. 366 del 1986, ha chiarito che: «l’art. 21, l. 1º giugno 1939, n. 1089, in materia di tutela dei beni di notevole interesse storico ed artistico, introduce un chiaro principio di separazione tra l’esercizio delle facoltà volte alla creazione ed alla gestione del cd. vincolo indiretto e l’applicazione dei regolamenti edilizi o l’esecuzione dei piani regolatori, attività che la norma stessa proclama indipendenti; pertanto, non è consentito al comune l’autonomo intervento sia pure in esercizio di poteri formalmente riconducibili a situazioni diverse, a scopo esclusivo di tutela di interesse storico-ambientale».
Sempre la sez. VI del Consiglio di Stato, consultiva degli atti normativi, con sentenza n. 107 del 1999, ha stabilito: «il principio secondo cui il potere regolamentare deve sempre trovare nella legge la propria legittimazione risponde a regole di stretta tipicità e può essere derogato solo con riferimento ai regolamenti cd. liberi, previsti dall’art. 17 comma 1 lett. c) l. 23 agosto 1988 n. 400».
La Corte Costituzionale con sentenza n. 324 del 2003, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 11, co. 3, lett. i), della legge della Regione Campania 1º luglio 2002, n. 9 (Norme in materia di comunicazione e di emittenza radiotelevisiva ed istituzione del Comitato Regionale per le comunicazioni: CO.RE.COM.). La questione di legittimità costituzionale del suddetto articolo, fu sollevata dal Governo perché eccederebbe dalla competenza legislativa regionale di cui all’art. 117 della Costituzione.
La disposizione censurata stabilisce che la Giunta regionale, in mancanza di un atto legislativo del Consiglio regionale e fino all’approvazione di una legge organica sul sistema integrato della comunicazione in Campania, disciplini con regolamento la localizzazione e l’attribuzione dei siti di trasmissione delle reti pubbliche per l’emittenza radiotelevisiva e per le telecomunicazioni e gli strumenti di sostegno eventualmente necessari. Il Governo ricorrente, pur riconoscendo che il co. 3 dell’art. 117 Cost. preveda una competenza legislativa concorrente fra Stato e Regione in tema di ordinamento della comunicazione, deduce dal co. 6 dell’art. 2, della legge 31 luglio 1997, n. 249 (Istituzione dell’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni e norme sui sistemi delle telecomunicazioni e televisivo) l’esistenza di un principio fondamentale in base al quale ‘la localizzazione e l’attribuzione dei siti’ sarebbe riservata all’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni, ‘che provvede sentite le Regioni’.
La Corte, sostiene che: «L’attribuzione alla Giunta, e non al Consiglio, della potestà regolamentare si renderebbe peraltro necessaria, a seguito del notevole ampliamento dell’ambito di applicazione della potestà regolamentare regionale, che postulerebbe, anche ai fini del soddisfacimento del principio di buon andamento dell’amministrazione di cui all’art.97 della Costituzione, l’esercizio di tali competenze da parte di un organo diverso da quello al quale è attribuita la potestà legislativa, giacché non avrebbe senso ampliare la potestà legislativa regionale, fino a farla diventare potestà legislativa generale, per poi ricadere nell’errore della confusione tra potestà legislativa e potestà regolamentare».
Il Consiglio di Stato sez. V, con sentenza n. 6317 del 2004, concernente un regolamento del Comune di Prato in materia di tutela dei diritti degli animali, ne afferma la legittimità anche in mancanza di un espresso fondamento legislativo. Secondo il Supremo Collegio: «la potestà regolamentare degli enti locali, sia pur nei limiti dettati dall’ordinamento, può spaziare oltre le materie contemplate espressamente, in considerazione della caratterizzazione degli enti locali come enti a fini generali, del fatto che il potere regolamentare è espressione del potere di auto-organizzazione dell’ente e dal carattere puramente esemplificativo delle materie indicate nell’art. 7 d.lgs. 267/2000».
Il Consiglio di Stato sez. atti normativi, con sentenza n. 3262 del 2007, stabilisce che: «Il regolamento di attuazione ed esecuzione del codice dei contratti pubblici relativi a lavori, servizi e forniture, di cui all’art. 5, d. lg. 12 aprile 2006 n. 163, emanato ai sensi dell’art. 17 comma 1, l. n. 400 del 1988, non può configurarsi come un regolamento indipendente ai sensi dell’art. 17 comma 1 lett. c), l. n. 400 del 1988, dal momento che tale tipologia è da ammettere con estrema cautela nelle sole materie «vergini» non ancora regolate con legge, e sempre che non si tratti di materie in cui vi è riserva assoluta o relativa di legge».
Molto significativa è la pronuncia della Corte dei conti, sez. autonomie, n. 6 del 2008, dove afferma che: «in relazione alla natura dell’atto, il controllo della Corte, è ascrivibile alla categoria dell’esame della legalità e regolarità, in una prospettiva non più statica, ma dinamica, volta a finalizzare il confronto tra fattispecie e parametro normativo all’adozione di effettive misure correttive. Lo strumento per raggiungere siffatto risultato in una tipologia di controllo di natura collaborativa può essere individuato nell’applicazione dei principi e dell’iter procedurale dettati dall’art. 1, comma 168, della legge n. 266 del 2005».