Duchamp e il Dadaismo, come l’arte diventa specchio dei giorni nostri
“Abolizione della memoria: DADA; abolizione dell’archeologia: DADA; abolizione dei profeti: DADA; abolizione del futuro: DADA; fede assoluta irrefutabile in ogni Dio che sia il prodotto immediato della spontaneità: DADA.”
Così riportava Tristan Tzara sul Manifesto del Dadaismo pubblicato nel 1918. La parola DADA di fatto non aveva alcun significato, nasceva piuttosto da un bisogno d’indipendenza. Complici furono gli anni della Grande Guerra e il sentimento di straniamento derivante da quest’ultima, a seguito della quale si ricercava il proprio posto nel mondo gridando a gran voce la parola Libertà.
Per condurre un’analisi approfondita del fenomeno DADA e del grande genio di Marcel Duchamp è doveroso comprendere la filosofia nascosta dietro un semplice “orinatoio”, che non vuole comunicare la qualità oggettiva di sé stesso, piuttosto una nuova “idea” del processo artistico che aprirà la strada all’Arte Processuale degli anni Sessanta.
Nell’aprile del 1917 Marcel Duchamp aderì alla rassegna promossa dalla Society for Indipendent Artists di New York ma la sua opera fu bocciata. “Fountain” fu ritenuta inadatta ad una mostra d’arte in quanto non era un dipinto e nemmeno una scultura.
Tuttavia, poche settimane dopo, il lavoro ebbe una fama straordinaria attraverso una gigantografia apparsa su una rivista avanguardista. «Se Mr. Mutt abbia fatto o no la fontana con le sue mani non ha importanza. Egli l’ha scelta. Ha preso un comune oggetto di vita, l’ha collocato in modo tale che un significato pratico scomparisse sotto il nuovo titolo e punto di vista; egli ha creato una nuova idea per l’oggetto» scriveva il giornalista Louise Horton sottolineando come Duchamp volesse passare da una dimensione artistica e fisica ad una più propriamente intellettuale.
L’artista aveva considerato l’oggetto proveniente da una nota ditta di sanitari di lusso newyorkese come un manufatto d’arte, ma venne accusato di volgare provocazione e oltraggio alla morale. I sostenitori della nuova idea artistica svicolarono le accuse mettendo in luce come l’attenzione non doveva essere rivolta all’oggetto in sé, ma all’interpretazione che ne derivava.
La scelta dell’artista non comunicava solo un desiderio di rottura, quanto una rilettura della società che di lì a poco si sarebbe sviluppata: l’utopia positivista dei ruggenti anni Venti, l’espansione industriale, l’esplosione dell’età del jazz, del cinema, delle automobili, della radio. Anche lo svago e gli hobby vennero influenzati da tali cambiamenti.
L’incompreso messaggio rivoluzionario di Duchamp era nell’essenza del cubismo e del futurismo da cui aveva tratto ispirazione ossia “insofferenza verso ogni forma convenzionale di fare arte e la volontà di esprimere la creatività in forme inedite”.
“Ruota di bicicletta”, “Scolabottiglie” erano ready-made e l’inedita genialità consisteva nell’affidare ad esse lo statuto di opere d’arte in cui l’idea si sostituisce all’opera, l’interpretazione al manufatto, il significato al significante. In tale ottica ogni oggetto quotidiano può essere scelto purché tale azione si fondi – come affermato da Duchamp – su una “reazione di indifferenza visiva, unita al tempo stesso a un’assenza totale di buono o cattivo gusto”.
La svolta anticipata dall’artista franco-americano si preparava da secoli: qualunque cosa può essere ritenuta opera d’arte se la si riconosce come tale e la scelta individuale si pone come unico criterio valutativo. Pertanto alla domanda “cosa sia l’arte” oggi è più corretto chiedersi perché determinati oggetti diventino arte. L’attenzione si sposta dall’oggetto a chi lo riconosce come manufatto artistico: il pubblico, i media, i critici, il mercato. Ciò spiega la diversità di giudizi e l’assenza di una stessa opinione collettiva.
Giovanni De Gara è un ulteriore esempio più vicino ai nostri tempi di come l’arte sappia farsi denuncia sociale. Nel 2018 l’artista realizzò una serie di installazioni che utilizzavano le dorate coperte isotermiche usate per il primo soccorso. “Eldorado. Nascita di una nazione” era il progetto di De Gara, iniziato a Firenze e che lo portò a rivestire di “oro salvifico” numerose chiese e site-specific in Italia. Attorno all’artista si sono riunite numerose collettività accomunate dall’esigenza di riflettere sul tema dell’accoglienza e su un nuovo umanesimo da costruire. Allora a cosa serve l’arte? A cosa gli artisti?
“Arte è ciò che senti, Arte è non ciò che vedi, ma ciò che fai vedere agli altri”, affermava Edgar Degas, racchiudendo nelle sue parole le fondamenta della contemporaneità che fonde assieme l’idea e il concetto.
Reti metalliche, tele, nastri adesivi, sgabelli di legno; la ricerca dei materiali a cui assegnare il suo messaggio creativo costituisce oggi l’identità dell’artista che affida la sua idea ad un campo d’azione indefinito e indefinibile che è funzionale a ciò che la comunità ritiene essere importante.
Ciò origina una traslazione dall’“Opera d’arte” verso l’“Oggetto d’arte”. Giovanni Fattori affermava che «Quando all’arte si leva il verismo che resta? Il verismo porta lo studio accurato della Società presente, il verismo mostra le piaghe da cui è afflitta, il verismo manderà alla posterità i nostri costumi e le nostre abitudini». Così l’artista oggi diventa lo specchio del nostro presente. Attraverso le più quotate case d’arte internazionali è difficile non notare la vitalità, la provocazione, l’innovazione e a volte la genialità che tanti percorsi espositivi offrono e che ci portano ad interpretare e a reinterpretare, anestetizzandoci, il confusionario e multiprospettico contesto sociale in cui viviamo.