Tessuti e moda dell’Italia bellica: un’interessante storia d’ingegno e resilienza
La crisi attuale, figlia della pandemia, della guerra in Ucraina e, certamente, della speculazione commerciale e finanziaria, porta alla mente altri periodi della nostra storia, tempi più bui che, però, dimostrarono al mondo l’italica arte dell’arrangiarsi. Con l’autarchia fascista, peggiorata prima nel 1935 per le sanzioni comminateci dalla Società delle Nazioni, poi dal ’40 per la diretta partecipazione alla guerra, gli italiani furono interessati da un cospicuo corredo di rinunce. Il regime fascista, per le ragioni indicate, aveva da tempo introdotto una serie di norme, regolamenti, suggerimenti, potremmo dire consuetudini, in verità spesso poco rispettate e di facciata, che, basandosi sul forte richiamo ai valori del sacrificio e della Patria, costringevano i cittadini a privarsi di qualcosa, chiedendo contemporaneamente al mondo industriale di inventare soluzioni alternative per produrre i beni di consumo. Un vento di necessaria innovazione, di idee e traguardi, partito però da lontano, generato anche dal traumatico ritorno alla normalità del primo dopoguerra. La riconversione industriale aveva subito evidenziato alla politica italiana la forte dipendenza di un Paese che, nonostante le grandi aspirazioni, era però privo di moltissime essenziali materie prime. Così, oltre alle consuete discussioni politiche, si fece di necessità virtù spingendo il mondo scientifico ad un rinnovato vigore, chiedendo a scienziati e tecnici di trovare adeguate risposte industriali in tutti i settori merceologici, tra cui anche quelli dei tessuti e, ovviamente, della moda.
Già durante e subito dopo il precedente conflitto, la Grande Guerra del ’15-’18, la moda era apparsa in prima linea nella necessaria economia delle risorse, tra l’altro utilizzando una vivace pubblicità che stimolasse la voglia degli italiani di recarsi nei primi grandi magazzini commerciali, non solo per sognare ovviamente, ma anche per informarli sulle tendenze più utili a superare le difficoltà del periodo. Dalla fondazione della Rinascente nel 1917, con il culturale apporto di Gabriele D’Annunzio, che ne aveva inventato il nome come buon auspicio per la nuova avventura commerciale, passando per il 1919 con il lancio della UPIM (Unico Prezzo Italiano Milano) per i ceti più popolari, fino alla STANDA, altra catena commerciale per tutte le tasche, sorta nel 1931, il linguaggio usato dalla moda era molto cambiato. Un’informazione plagiata sia dalla propaganda di regime, sia dalle difficoltà di un periodo di forti mutazioni sociali, diventata via via più etica, moralista e patriottica, soprattutto per le donne, fortemente focalizzata su nuovi tessuti e capi in grado di garantire un adeguato grado di bellezza e praticità, pur riservando le risorse più preziose all’industria bellica.
Va pure ricordato che la nostra industria tessile era uscita letteralmente con le ossa rotte dalla crisi del ’29, soprattutto per il pregiato settore serico e per l’universalistico cotoniero. In suo soccorso, però, era arrivata orgogliosamente l’industria chimica nazionale con moderni ritrovati sintetici per ovviare, ad esempio, alla forte carenza di lana e juta, materie prime ridotte per legge, mischiate con una precisa percentuale di fibre sintetiche per produrre diversi filati adatti all’ormai più povero mercato interno. Questa interessante congiuntura tra tessile e chimica si concretizzò proprio nei cosiddetti tessuti autarchici, tra cui i più noti divennero il Rayon, la seta artificiale, il Lanital, derivato della caseina per ricavare una lana artificiale, la Salpa, che sostituiva il preziosissimo cuoio, o la Ginestra, prodotta dall’omonima pianta in sostituzione di juta e e cotone. Tutto ciò a comporre un quadro socioeconomico che oggi assume valore di straordinario spaccato storico, di bellezza, di dimostrazione della passionale vivacità italiana e di una genialità comunicativa davvero considerevole. Interessante notare come, in quegli anni, alle nostre sempre affascinanti signore, di qualsiasi ceto sociale, la moda impose delle linee più semplificate, spesso più strette e aderenti al corpo, ovviamente per risparmiare sui filati e sulle “pezze di tessuto”, imponendo per circa un quinquennio gonne tagliate al ginocchio o giacche dal taglio ridotto, spesso composte da spalle quadrate e senza fronzoli, proprio mentre le scarpe iniziavano ad usare suole di cartone e sughero, al massimo di capretto italico, con il chiaro scopo di lasciare la più pregiata gomma ai militari. Via quindi le grandi svolazzanti maniche, via gonne troppo esose e apertura alla solidità del taglio “militare”, ma soprattutto meno bottoni e fronzoli che aumentavano sia il carico di lavoro per le sartorie artigianali e industriali, sia l’impiego di materie prime.
La moda italiana si trasformò, quindi, nella necessaria rinnovata «eleganza fascista» utilizzando, in modo brillante viste le opprimenti difficoltà, la seta sintetica, il Rayon appunto, diventata nell’immaginario collettivo «il più moderno dei tessuti italiani e il più italiano dei tessuti moderni». Grazie ad apposite campagne mediatiche, il regime precisava ed affermava con veemenza che tali nuovi filati non rappresentavano dei surrogati, ma piuttosto «i prodotti di una nuova epoca tessile», che tra l’altro tendeva finalmente a distaccarsi dall’eccessivo legame con la moda francese, consolidato riferimento di stile dei primi decenni del ‘900. Un’affermazione che oggi, ricordando il passato in termini culturali, assume una reale concretezza storica. Insomma, quei prodotti rappresentarono davvero un’affascinante epoca del nostro percorso evolutivo, soprattutto perché all’ingegno industriale e commerciale si associò presto anche l’inventiva popolare.
Questo fervore, come quello per buona parte dei prodotti di mercato, si sarebbe scontrato però, dal secondo anno di guerra, con l’utilizzo della tessera annonaria e dei suoi bollini, i “punti” creati per controllare addirittura l’acquisto dei capi d’abbigliamento. La guerra avrebbe presto imposto una maggiore povertà, la necessità di soffrire il freddo, di nutrirsi con pochissimo cibo e di trovare, prima di tutto, la dignità della sopravvivenza. Ricordiamolo sempre. La guerra non è mai una soluzione, tranne per chi ne trae direttamente vantaggio. Meditate gente…meditate!