Ifigenia: tragedia della follia al Teatro Rendano di Cosenza
Ifigenia: una famiglia sconvolta e devastata da una maledizione che ha colpito la stirpe di Agamennone, il leggendario Re, capo supremo degli Achei nella guerra di Troia. Questo è solo lo sfondo narrativo della nota tragedia euripidea, un Leitmotiv comune ai più antichi miti alle più antiche religioni, occidentali e non, quello dell’essere umano sottoposto dalla divinità alle più ardue prove, espediente utile alla conoscenza della fede e all’espiazione delle colpe. Basti pensare ad opere ancora più antiche di Ifigenia, come l’Eraclea (600 a.C.) di Pisandro di Rodi, in cui le dodici fatiche rappresentano un continuum di sfide che quasi portano all’esasperazione dell’uomo. Nel mito di Euripide, invece – risalente al 400 a.C. circa – a essere messa alla prova è Ifigenia, figlia primogenita di Agamennone, capo della spedizione greca nella guerra di Troia. Ed è questa la versione rappresentata dai 31 studenti del Liceo classico Bernardino Telesio di Cosenza al teatro Alfonso Rendano, intitolata “Ifigenia da Aulide a Tauride” di Antonello Lombardo e Officine teatrali telesiane – questo il nome della compagnia teatrale – e con gli adattamenti dei testi di Flavio Nimpo. La suggestiva scenografia, l’accuratezza dei costumi e il talento dei giovanissimi attori hanno così accompagnato il pubblico nell’ambiente mitico dell’antica Grecia. Nelle prime scene, la flotta greca è ferma al porto di Aulide, perché i venti contrari ne impediscono la partenza. Il sacerdote Calcante spiega che l’ira degli dei può essere placata solo se Agamennone sacrificherà sua figlia Ifigenia ad Artemide. Diversi poeti greci e latini hanno descritto in modo diverso le sorti della donna, conferendo alla vicenda diverse simbologie. In una versione più antica del mito – “Ifigenia in Aulide” – alla donna spetta un destino tragico. Secondo un’altra versione più recente e meno violenta, al momento del sacrificio, Ifigenia viene sostituita con una cerva da Artemide, assetata di vendetta. Infatti, è proprio per aver ucciso in precedenza una cerva a lei cara che Agamennone viene punito. La dea farà di Ifigenia una sacerdotessa e la porterà con sé nella regione dei Tauri, in Asia, dove gli abitanti uccidono, nel tempio di Artemide, tutti gli stranieri che giungono nella loro terra. Improvvisamente approda anche Oreste, fratello di Ifigenia, in compagnia dell’amico e cugino Pilade: devono condurre ad Atene una statua di Artemide. Ifigenia, dopo aver salvato i due da morte certa, riesce a fuggire dalla terra dei Tauri riportando ad Atene la statua sacra. Le vicende umane sono così permeate da un’imprevedibile sorte, in uno spesso e intreccio permeato da verità e apparenza, simulazione e dissimulazione, che trae in inganno l’essere umano. L’intreccio riguarda però anche gli eventi attuali: anche il mondo contemporaneo, così come il mondo antico, sta vivendo la tragedia della guerra e l’orrore verso il nemico – che in fin dei conti è sempre un essere umano. Finzione e realtà hanno in comune proprio il difetto dell’umanità: la ragione offuscata dalla follia, di cui Ifigenia incarna la vittima innocente, prima dell’inganno e poi della manipolazione mentale, affinché arrivi a considerarsi quasi privilegiata per la morte a cui è destinata. È infatti con un gesto simbolo di esaltazione patriottica, dominata dal sonno della ragione – che la donna si immola, sottomettendosi ai suoi aguzzini. Tuttavia è nel finale della “Ifigenia in Tauride” che possiamo forse trovare una risposta: in questa versione, Oreste fuggiasco approda in un’isola dove la sorella, sottratta alla morte per volontà della dea, è divenuta sacerdotessa. Insieme riescono a raggirare uomini e dei e a salpare, per sempre liberi, liberi dalla schiavitù della follia. È proprio il lento riconoscimento reciproco dei due giovani, accompagnato da un fitto dialogo, a dare spazio alla speranza di una vita serena e alla fratellanza. <<Andate felici, voi siete fra chi si salva, fortuna v’arride>>, così recita il coro finale.