Lingue e comunicazione: siamo la lingua che parliamo?
Una concezione molto diffusa delle lingue è quella che le considera uno strumento che serve per comunicare. Tramite una concezione strumentalista, ne comprendiamo anche i limiti. Perché? Da un lato ci chiediamo in che rapporto stia la comunicazione col pensiero. Ebbene, secondo questa concezione, i pensieri si formano in modo dipendente dal linguaggio per poi essere comunicati dallo stesso. Inoltre ci rendiamo conto, guardandoci intorno, che non esiste uno strumento solo, ma diverse lingue, strumenti comunicativi dalle caratteristiche simili, che assolvono tutte le stesse funzioni, anche se in forme diverse. Tale concezione ha una serie di implicazioni di natura diversa che toccano anche la politica linguistica; se, ad esempio, le lingue sono viste come meri strumenti, allora sarò ovvio privilegiare quella o quelle che, qualsiasi ne sia la ragione, funzionano in modo più efficiente da un punto di vista economico; basti pensare all’uso (e abuso, in alcuni casi) della lingua inglese. Ma se seguissimo questa logica strumentalista, si andrebbe incontro a un suicidio del plurilinguismo, poiché la maggior parte della popolazione tenderebbe a imparare prevalentemente la lingua che presenta più vantaggi. Altro aspetto problematico di questa concezione è il fatto che la lingua è considerata come un dispositivo separato dai parlanti, il che significa che il soggetto non sarebbe particolarmente implicato nelle lingue. Tullio De Mauro ci ricorda che nella concezione strumentalista domina “l’idea di una lingua come una machine à parler, un dispositivo che ci permette di dire e capire frasi senza aver avuto parte nella sua costruzione e senza sapere come è fatto, così come né costruiamo né ben capiamo come funzionano le auto che guidiamo, gli aerei su cui voliamo, il computer su cui scriviamo”. L’importante è usarla, insomma. Questa è la conseguenza di questa concezione. È indubbiamente vero, non è una lingua da noi progettata, non è una lingua artificiale progettata a tavolino da un parlante (come l’esperanto, progettata da Ludwik Lejzer Zamenhof). La lingua che noi parliamo ha una tradizione alle spalle. Gli utenti considerano dunque lo strumento di cui si servono per la comunicazione come qualcosa ad essi estraneo. Però non è detto che sia così, perché il rapporto tra parlanti e lingua non è estrinseco. Questo lo si nota molto bene quando si affronta la concezione opposta, la cosiddetta “Weltansicht”. Questa nozione – la cui denominazione è traducibile con “prospettiva, visione del mondo” rende quest’aspetto della lingua – il fatto di non essere semplicemente uno strumento comunicativo, bensì la creazione di una prospettiva sul mondo – come qualcosa che abbia a che fare con la cognizione, ancor prima che con la comunicazione. Le lingue quindi non sono diverse tra di loro solo da un punto di vista comunicativo (nella dimensione semiotica e fonologica) ma anche diverse da un punto di vista di categorizzazione della realtà. Le lingue creano un insieme di categorie uniche che non ha corrispondenza identica nelle altre lingue. Quest’idea della lingua è molto diversa da quella strumentalista perché mette a fuoco il rapporto tra cognizione e comunicazione, che considera due aspetti dello stesso fenomeno (come si vedrà nel pensiero del linguista Saussure). In questa concezione troviamo un altro aspetto opposto alla concezione strutturalistica, cioè il ruolo del parlante. Le lingue hanno da un lato un valore in sé paragonabile alla varietà dell’ecosistema Terra: così come ci sono tanti organismi, ci sono anche tanti organismi linguistici. In effetti, dato che questa dimensione viene trascurata scompaiono le lingue, perché scompaiono i suoi parlanti; anche se la comunità linguistica ha lasciato dei testi scritti, è comunque una lingua morta, come il latino. Quindi in questa concezione ritroviamo la centralità del soggetto parlante, perché esso è un fattore fondamentale per la creazione di questa prospettiva: è il parlante ad avere la Weltansicht, può modificare ed esercitare un’influenza profonda sulla lingua. Questo è dimostrato dall’uso letterario e creativo della lingua. Esempio significativo è quello di Dante con il volgare e la Commedia. Questi sono esempi della soggettività linguistica che può avere un influsso sulla lingua, modificando così la Weltansicht con cui la lingua è identificata. Quindi lo strumentalismo non può essere l’unico punto di vista possibile. Basti ricordare il pensiero di Saussure, che non vede la lingua come una massa di fatti eterofili: i fenomeni linguistici sono moltissimi e tra loro eterogenei, per questo difficilmente riconducibili a una prospettiva unica. Quindi lo studio del linguaggio implica necessariamente l’adozione di più prospettive.