Giornata della Memoria – MAI dimenticare – 80° anniversario della Shoah
“Se comprendere è impossibile, conoscere è necessario” Slogan di Primo Levi (Primo Levi, Torino 31 luglio 1919 – 11 aprile 1987).
Nel periodo in cui a tutti i livelli d’istruzione, si agisce per la formazione di tanti ragazzi proiettati verso un futuro roseo con una coscienza sociale, è d’obbligo organizzare una giornata dedicata a particolari momenti di conoscenza e di impegno concreto affinché il silenzio non cancelli la consapevolezza di ciò che è accaduto. Infatti, gli avvenimenti sconvolsero le coscienze delle persone dell’intero globo, richiamabili e commemorati nella “Giornata della Memoria”. È necessario il coinvolgimento dei ragazzi nella conoscenza della Shoah, (Shoah in ebraico significa desolazione, catastrofe, disastro) non solo per condannare la crudeltà di certe persone ma anche per dare speranza. Conoscere significa avere gli strumenti per comprendere le responsabilità e le conseguenze terribili che genera la guerra. Conoscere è l’antidoto migliore per non commettere MAI più quei tragici errori. Ecco perché è importante, anzi fondamentale, che a queste manifestazioni partecipino i ragazzi delle scuole affinché possano comprendere l’importanza di quei drammi al fine di rafforzare i valori come libertà, uguaglianza, giustizia sociale, diritto al lavoro e solidarietà. Questi valori sono sanciti nella nostra Costituzione democratica, ritenuta “la Costituzione più bella al mondo”. Gli anzidetti valori appaiono oggi ancor più validi in questo momento di crisi economica e sociale. Sappiate che queste commemorazioni servono a non dimenticare mai che è grazie al sangue versato dai nostri nonni e dai nostri padri, se oggi possiamo vivere in uno stato democratico e libero che ha garantito, per ottanta anni, la pace e con essa la speranza di un futuro migliore ai propri figli.
“Giornata della Memoria, non si può dimenticare e tacere”.
Ripercorrere ogni anno, nel Giorno della Memoria, le tracce di quel dolore che apparve in tutta la sua enormità quando il 27 gennaio del 1945 si aprirono i cancelli di Auschwitz, (già OSWIECIM) significa rendere ancora una volta il commosso tributo della nostra comunità alle vittime della Shoah, ma anche ribadire con forte convinzione che ciò che è stato non si può dimenticare, non si può tacere, non si può ignorare.
Auschwitz, oggi, è diventato un monumento contro l’orrore nazista. Ma è, e deve essere, anche la testimonianza, presente e consapevole, di quali sciagure sia capace di compiere l’uomo quando abbandona la strada della convivenza e della solidarietà e imbocca la strada dell’odio.
I primi deportati iniziarono ad arrivare già nel 1940. Giunti a destinazione, sotto gli occhi del “personale medico” delle SS, avveniva la prima tragica selezione: mediamente solo il 25% dei deportati era dichiarato abile al lavoro, il restante 75% (donne, bambini, anziani, madri con figli) era automaticamente condannato a morte.
Nelle camere a gas, ad attenderli trovavano quelli che Primo Levi definì i “corvi neri del crematorio”: i sonderkommandos, unità speciali di ebrei istituite per collaborare con le SS in cambio di un trattamento di favore.
Le loro testimonianze hanno permesso di ricostruire l’orrore: giunti qui, i detenuti venivano spogliati e introdotti in un locale camuffato da spogliatoio con tanto di descrizioni multilingue delle procedure per il recupero dei vestiti. Ai sonderkommandos spettava il compito di guidare le vittime nei forni e di recuperare vestiti e denti d’oro.
Shlomo Venezia era uno di loro. Le sue drammatiche testimonianze – come il racconto della neonata sopravvissuta al forno crematorio mentre la madre morta la stava allattando – raccontano solo in parte l’orrore della Shoah.
Così come gli appunti di un altro membro dei sonderkommandos di Auschwitz, Marcel Nadjiari: ebreo greco deportato nel lager fu costretto a collaborare con le SS e decise di scrivere di nascosto l’orrore che vedeva, tenendo gli appunti nascosti sotto la terra. Per oltre 70 anni nessuno riuscì a decifrare i suoi pensieri, rovinati dall’umidità. Solo nel 2017 grazie alle nuove tecnologie è stato possibile rileggere quelle parole strazianti: “avremmo dovuto prendere i corpi di donne e bambini innocenti e accompagnarli all’ascensore che portava nella stanza con i forni dove i loro corpi sarebbero bruciati senza combustibile, a causa del loro grasso”, si legge.
I (pochi) prigionieri dichiarati abili al lavoro venivano invece spogliati, rasati e rivestiti di una casacca, un paio di pantaloni e un paio di zoccoli. Sul loro avambraccio sinistro era tatuato un numero associato ad un contrassegno colorato che identificava le diverse categorie di detenuti: ebrei, Rom, Sinti, testimoni di Geova, asociali, omosessuali, criminali e prigionieri politici.
Il loro compito da quel momento in poi era lavorare fino allo stremo delle forze per numerose ditte tedesche – tra cui la Siemens, la I.G.Farben (che produceva lo Zyklon B, il gas usato per lo sterminio) – o nelle cave, nell’agricoltura e nelle ditte legate all’industria bellica.
L’odore dei corpi bruciati si spandeva nell’aria arrivando fino a 20 chilometri di distanza, ai villaggi vicini.
I campi erano organizzati in aree: c’era l’ospedale, la cucina, l’ufficio della Gestapo, la prigione, la zona riservata agli esperimenti e il reparto dei forni crematori.
Vicino c’erano le baracche dei deportati divisi tra uomini e donne, con letti a castello a tre piani (su cui dormivano ammassati più prigionieri), il lavatoio e le latrine.
Un deportato in queste condizioni, lavorando 12 ore al giorno, sottonutrito, sottoposto al freddo, alle malattie e alle violenze, resisteva in media sei mesi.
A dirigere i lavori ad Auschwitz erano Rudolph Höss e altri membri delle SS: tutti dipendevano direttamente da Hitler, Himmler ed Eichmann. Al fianco di Hoss e delle SS operava un gruppo di medici, tra cui il famigerato Dottor Mengele, che dopo la guerra riuscì a fuggire in Sud America senza scontare un solo giorno di pena. Ogni “quartiere” (o blocco) aveva poi un kapò (di solito scelto tra i detenuti comuni, non ebrei) che decideva le sorti degli internati.
Alcuni internati infine furono costretti a fare da manovalanza, senza avere ruoli decisionali. Come Jozef Paczynski, che diventò il barbiere personale di Rudolph Höss, o come Lale Sokulov scelto per diventare il tatuatore ufficiale di Auschwitz.
O ancora come Wilhelm Brasse, un internato polacco arrestato perché renitente all’arruolamento nella Wehrmacht e “promosso” a fotografo dei detenuti. Prima di lasciare Auschwitz nascose le sue pellicole, che nel 1945 finirono in mano agli uomini dell’Armata Rossa.
Il 27 gennaio 1945 il campo fu liberato con circa 7.000 prigionieri ancora in vita. Per loro ricominciava una nuova esistenza, ma il senso di colpa non li avrebbe più lasciati.
Come raccontò Primo Levi in “I sommersi e i salvati” (Einaudi editore): “Mi sentivo sì innocente, ma intruppato tra i salvati, e perciò alla ricerca permanente di una giustificazione, davanti agli occhi miei e degli altri. Sopravvivevano i peggiori, cioè i più adatti; i migliori sono morti tutti”.
Testimonianza
Giornata della Memoria Alberta Levi Temin nata Guastalla, in provincia di Reggio Emilia nel 1919 e deceduta a Napoli il 31.8.2016 all’età di 97 anni
Nel gennaio 2007 ebbi la fortuna di incontrare la signora Alberta Levi Temin che, con il garbo che l’ha sempre distinta, mi descrisse i suoi ricordi. “Voglio iniziare ricordando le leggi razziali, emanate in Italia nel 1938. Queste leggi proibirono a tutti gli Ebrei di andare a scuola; gli uomini e le donne non potevano più lavorare in impieghi pubblici o privati. Io allora avevo 19 anni e sarei dovuta andare all’Università, ma per via di quelle leggi non ho potuto continuare i miei studi. Fortunatamente, avendo il diploma di maestra, ho potuto insegnare nelle scuole ebraiche così da aiutare i nostri ragazzi a non rimanere ignoranti.
In quel tempo io mi trovavo a Ferrara, dove gli Ebrei erano circa 1000, in una cittadina che contava 60.000 abitanti. Ricordo che alla fine dell’anno scolastico 1938-39 fu permesso ai bambini ebrei di andare a sostenere gli esami nelle scuole pubbliche. Ma dovevano entrare mezz’ora prima degli altri e uscire mezz’ora dopo gli altri; per andare in bagno dovevano essere accompagnati da un bidello, per evitare il contatto con gli altri bambini.
Anche l’esame di maturità di terza liceo non veniva fatto insieme agli altri. Si potevano vedere tre, quattro, cinque ragazzi messi in un’aula a parte, divisi dagli altri, in quella stessa scuola dove qualche anno prima stavano tutti insieme seduti nello stesso banco.
Quando nel 1940 l’Italia è entrata in guerra, la vita per la gente della mia razza è diventata ancora più difficile: cominciavano a comparire le scritte, sui muri e all’ingresso dei negozi, contro gli Ebrei. Ricordo che un giorno, mentre andavo alla scuola ebraica, passando davanti ad una sala del cinema dove tante volte ero andata a vedere i film, vidi un cartello con la scritta: “non sono desiderati né gli zingari né i cani né gli Ebrei”. Capite? Gli Ebrei venivano dopo i cani! Sui muri si vedevano tante scritte contro gli Ebrei: “abbasso gli Ebrei, fuori gli Ebrei dall’Italia, morte agli Ebrei”. Era veramente una cosa che ci faceva molto male. Si giunse, così, all’8 settembre del 1943, quando l’Italia firmò l’armistizio con gli Alleati. Il re, Vittorio Emanuele III, di fronte alla catastrofe, preferì imbarcarsi su una nave e andar via, lasciando la nazione in balia degli eventi.
I nazisti avevano occupato l’Italia. Nessuno sapeva cosa fare. L’Italia era allo sfascio. lo mi trovavo a Ferrara e avevo tanta paura: capivo che dovevamo nasconderci. Ricordo che un prete ci aveva detto: “quando vengono i nazisti, voi giovani scappate, perché correte un grande pericolo”.
Proprio la notte dell’8 settembre del 1943, mentre dormivamo tranquillamente a casa e c’era il coprifuoco, una forte suonata di campanello ci svegliò tutti.
Un uomo della Questura accompagnato da un soldato tedesco ci chiese di aprire; aveva una lista di nomi, erano venuti per cercare mio nonno, morto da 23 anni, titolare di una ditta di rappresentanze.
Mio padre era il gerente di questa ditta, ma aveva continuato l’attività lasciando il nome di mio nonno, Tullio Rabin, mentre mio padre si chiamava Carlo Levi. (Carlo Levi Torino, 29 novembre 1902 – Roma, 4 gennaio 1975).
Hanno cercato dappertutto ma ovviamente mio nonno non l’hanno trovato. Ricordo il passo chiodato del soldato che girava per la casa, che mi rimbombava nella testa e che non ho mai dimenticato. Se ne sono andati ma a noi hanno tolto la tranquillità; abbiamo capito che presto sarebbero venuti a cercare mio padre. Non potevamo più restare a Ferrara. E così il 12 ottobre partimmo per Roma dove vivevano degli zii. Essi pensavano che presto anche Roma sarebbe stata liberata, dopo che alla fine di settembre i tedeschi avevano dovuto abbandonare la Città di Napoli. Siamo partiti scappando, nessuno doveva sapere dove andavamo. Mio padre si procurò i biglietti per Arezzo e sul treno chiese il prolungamento fino a Roma. Arrivammo dagli zii il 13 ottobre ed il 16 ci fu la prima deportazione degli Ebrei in Italia.
Le autorità avevano fatto una legge che obbligava il portiere dei palazzi ad avere tutti i documenti delle persone che dormivano negli stabili. Si poteva andare a fare delle visite, ma se si restava a dormire bisognava lasciare le carte di identità in portineria.
La casa degli zii era molto piccola, ci siamo arrangiati alla meglio. Si dice che tutti gli Ebrei sono ricchi, ma non è vero. C’è chi è ricco, qualcun altro di meno, c’e chi vive del suo lavoro e c’è pure chi viene aiutato perché abbia un piatto caldo tutti i giorni. Anche mio zio, che era Ingegnere, aveva perso il posto pubblico nel 1938, si arrangiava facendo traduzioni, vendendo dei quadri che gli venivano da alcuni amici di Napoli. E anche noi dovevamo ora trovare un lavoro per sopravvivere. Papà è andato a cercare un amico con cui aveva fatto la guerra del 1915/18, (Carlo Levi era andato in guerra all’età di 13 anni) che si mise subito a disposizione: mio padre l’avrebbe aiutato nell’amministrazione, mia sorella piccola di 13 anni avrebbe fatto la baby sitter alla sua bambina. Anche io avevo trovato da lavorare sia dando delle lezioni private che assistendo una signora malata.
La sera del 15 ottobre, la sera dell’ultima cena a casa degli zii, andammo a letto sereni. Alla mattina alle 6 fui svegliata di soprassalto per una lunga suonata di campanello, quando ancora c’era il coprifuoco. In quel momento non pensai al peggio, avevo solo paura che potessero prendere mio zio.
Ricordando quanto era avvenuto a Ferrara, dissi alla mamma: “Non voglio sentire quel passo chiodato delle scarpe da soldato per la casa”. In camicia da notte scesi dal letto aprii una porta finestra che dava sul balcone e uscii per non sentire quel passo. Sentii l’urlo della zia… e immediatamente la finestra alle mie spalle si chiuse. Mia sorella, che si era precipitata giù dal letto, aveva chiuso anche i battenti interni perché non mi vedessero.
lo rimasi fuori e capii subito che stavano portando via proprio tutti. I due soldati SS urlavano parole incomprensibili che significavano “fare presto, fare presto” con un tono così cattivo che lo ricordo ancora. Da fuori al balcone sentii la mamma che diceva: “Ora il mio Carlo non lo vedrò più”. Carlo era il mio papà che non dormiva con noi ma in casa del suo amico.
Non so spiegarvi come feci a rimanere fuori al balcone mentre mi portavano via tutti i familiari. Ero diventata come una statua di sale, prigioniera della paura. Appoggiata con l’orecchio vicino alla fessura della finestra, cercavo di sentire qualcosa. Ad un certo punto sentii il rumore dell’altro balcone della cucina che veniva socchiuso e poi gli ultimi passi e la serratura della porta che veniva chiusa dall’esterno… poi, un silenzio assoluto. Solo dopo seppi che mio cugino di 16 anni, mentre veniva portato via dai tedeschi aveva pensato a me, lasciando socchiuso il balcone della cucina e le chiavi di casa nascoste sotto i miei vestiti.
Aspettai un poco, c’era tanto silenzio; entrai in casa, era stata messa tutta in disordine. Corsi verso la porta ma la trovai chiusa, non sapevo ancora delle chiavi che mio cugino aveva nascosto per me. Pensai di telefonare a mio padre per avvisarlo del pericolo, ma i fili del telefono erano stati tagliati. Pensai anche di calarmi sul balcone del piano inferiore con due lenzuola annodate. Ma quando andai per vestirmi, trovai nascoste sotto i miei vestiti le chiavi e una borsetta con dentro pochi soldi e qualche gioiello.
Appena uscita gli amici dello zio della porta accanto subito mi aprirono e mi fecero telefonare al mio papà. Poi mi chiesero di dare loro la carta di identità per falsificarla. E cambiarono il mio cognome da Levi in Levigatti.
Andai di corsa nella casa dove si trovava papà; ma lui non c’era.
Ricordo ancora quello che era scritto su un pezzo di carta che, mentre scappavo, trovai nel corridoio di casa: “Sarete trasferiti altrove, avete 20 minuti di tempo per uscire da casa; portatevi da mangiare per 8 giorni, una coperta, soldi, gioielli, chiudete bene la porta di casa e portatevi le chiavi. Nessuno può rimanere a casa, nemmeno gli ammalati più gravi perché al campo c’è un’infermeria”.
Trovai mio padre sotto la porta di casa dell’amico che gli aveva offerto un lavoro… Non sapeva quanto stava accadendo… aspettai che fossimo in ascensore per spiegargli quanto era successo…
A quel tempo noi ancora non immaginavamo quello che accadeva nei campi di concentramento… Gli amici che ci ospitavano ci mostrarono un nascondiglio nel soppalco protetto da una botola, vi misero una scala perché in qualunque momento di pericolo potessimo metterci in salvo, nascondendoci nel soppalco. Vi racconto ora che cosa accadde alla mamma e a mia sorella. 1.230 persone erano state prese dai nazisti e vennero condotte in un collegio militare non lontano dalle carceri di Regina Coeli. Ad un certo punto dissero: “Se ci sono dei cattolici fra di voi, si spostino in un’altra stanza”. Mia mamma non ebbe il coraggio di andarci per timore di essere scoperta e per paura di rappresaglie su altri Ebrei. Scrisse un biglietto a noi della famiglia affidandolo ad una signora affinché lo facesse pervenire. Quel foglietto lo conservo ancora, c’era scritto: “Noi tutti siamo tranquilli, siatelo anche voi e fate ciò che potete. Ci rivedremo presto. Vi bacio, vi abbraccio, Dio vi benedica”.
Duecento persone, passate nell’altra stanza per essere interrogate, tornarono in libertà. poi ci fu una cosa imprevista, alcuni soldati chiesero: “Se fra voi ci sono dei cattolici di matrimonio misto, passino nell’altra stanza”.
La legge italiana, a differenza di quella tedesca, affermava che bastava avere un genitore cattolico e aver ricevuto il battesimo prima della emanazione delle leggi razziali per essere considerati cattolici. In Germania era diverso: bastava che uno solo dei quattro nonni fosse ebreo per essere considerati ebrei, anche se da due generazioni erano battezzati. Durante il rastrellamento vennero prelevate 1.230 persone delle quali 207 vennero liberate e 1.023, rimanendo in mano dei tedeschi, vennero spedite ad Auschwitz”.
È importante conoscere la storia e che quanto accaduto può verificarsi ancora per cui poniamo tutte le nostre speranze nei giovani, affinché siano custodi della nostra libertà. Difendetela senza se e senza ma.