Alberto Giacometti e l’insostenibile leggerezza dell’essere
“Ma davvero la pesantezza è terribile e la leggerezza è meravigliosa? Il fardello più pesante ci opprime, ci piega, ci schiaccia al suolo […]. Il fardello più pesante è quindi allo stesso tempo l’immagine del più intenso compimento vitale. Quanto più il fardello è pesante, tanto più la nostra vita è vicina alla terra, tanto più è reale e autentica”. Apparirà improprio o complesso paragonare l’arte di Alberto Giacometti – scultore prevalentemente surrealista che nel corso della sua carriera abbraccerà anche altre correnti artistiche – al sentire di Milan Kundera, autore del longseller dal titolo “L’insostenibile leggerezza dell’essere”, scritto nel 1982 ed edito anni dopo. Eppure, a discapito dei diversi periodi storici vissuti, gli interrogativi che ispirano i due maestri in arte e letteratura sembrano essere gli stessi. Data la fugacità e l’irripetibilità delle nostre vite, sorge spontanea la domanda che maggiormente ha caratterizzato il corso del Novecento: “Che cosa dobbiamo scegliere, allora? La pesantezza o la leggerezza?”. Giacometti sceglie la seconda per elaborare il suo linguaggio plastico teso a cogliere dal vero l’essenza vitale dell’animo umano. Difatti, lo scultore svizzero, viene identificato ed apprezzato dal grande pubblico per il suo lavoro esistenzialista, e cioè le sue figure filiformi, sottili, prive di sostanza o rigidi schemi anatomici.
Classe 1901, Alberto Giacometti nasce a Borgonovo, in Val Bregaglia (Canton Grigioni). È il primogenito del pittore Giovanni Giacometti che opera a Stampa, in Svizzera, e da cui trae l’interesse per l’arte e la sua plasticità. Tra il 1925-26 inizia l’avventura d’avanguardia del giovane Alberto, guardando in particolare a scultori quali Brancusi, Lipchitz, Archipenko, oltre che all’arte primitiva africana e cicladica. A Venezia e a Padova scopre invece l’arte di Tintoretto e Giotto.
Nel 1929 Giacometti entra a far parte del Movimento surrealista, le cui opere hanno risvolti psicanalitici, facenti riferimento all’immaginario onirico e legato al subconscio, compagine in cui gravitano Max Ernst e André Masson, importanti riferimenti. Sono di questo periodo i lavori “Palla sospesa” e “Homme et femme”, il cui aspetto più innovativo è sicuramente la messa in gioco nell’opera plastica del movimento reale. Verso la metà degli anni Trenta avviene una rottura con la corrente surrealista. Giacometti inizia ad essere attratto dalla resa dell’esistenza individuale: l’artista insegue un’immagine formale che si assottiglia sempre di più, diventa fragile e asciutta, risucchiata dallo spazio e dal tempo. “La scultura risiede nel vuoto, lo spazio esiste quando lo si scava per costruire l’oggetto e, a sua volta, l’oggetto crea lo spazio”, dichiarerà in seguito. Negli anni della guerra, l’artista svizzero crea figure sempre più esili, collocate su basamenti spessi. È il canto della solitudine, dell’estraniazione, ciò che egli vuole ricreare. Nascono i Nudi, una serie dai soggetti alti e scarnificati, privi di peso e dalla spaventosa monumentalità, una resa espressiva quasi “scheletrica”. Dalla scelta tipologica della scultura sono innegabili gli influssi egizi di immobilità ieratica, il moto accennato dalle statue dei faraoni e il lento incedere regale che suggerisce l’avanzata del sovrano, o ancora, tale postura si riversa nell’arte greca più arcaica, quella dei kouroi, i quali possiedono sempre la gamba sinistra avanzata, la stessa delle statue egizie, e, come quest’ultime, i pugni chiusi lungo i fianchi e un’espressione imperturbabile sul volto.
Improvvisamente però, giunge nel corso della storia dell’arte un solo “Uomo che cammina”, o meglio, l’Homme qui marche, in tutta la sua materialità corporea, privo del capo, ma che avanza come se sapesse ancestralmente dove andare: l’atto del movimento lo fa esistere, gli assegna un proprio posto del mondo. È “Uomo che cammina” di Auguste Rodin la scultura creata nel 1905, che lo stesso Giacometti replica nel 1960, chiudendo ideologicamente un cerchio, quello della statuaria novecentesca. Innegabile è l’interpretazione contenutistica in chiave esistenzialista e fenomenologica. L’uomo nel Novecento appare piccolo dinanzi alla grandezza e al contempo tragicità della storia: due guerre mondiali e continue controversie che non accennano a diradarsi. È la problematica della scelta ciò che investe l’uomo contemporaneo, possibilità negata a tanti individui che vivono sotto dittature estremiste, possibilità che altri invece possiedono ma che, a causa dell’omologazione di massa, non mettono in atto, seguendo la fiumana di gente in una direzione già decisa.
Un aspetto fondamentale del romanzo “L’insostenibile leggerezza dell’essere”, punto di inizio da cui siamo partiti, è infatti rappresentato dalla scena politica nella Cecoslovacchia del 1968, la Primavera di Praga e la successiva invasione sovietica, che spinge gli uomini, tra paura e forza, a mettere in discussione il proprio credo politico, scegliendo se restare in silenzio e vivere altrove o se combattere e affrontare le conseguenze della propria scelta. L’assottigliamento dell’uomo novecentesco è reale, sentito e reso da Giacometti, ma è anche quanto di più vicino a noi ci sia, in una società fragile, destata da minacce ideologiche a cui si preferisce rispondere con la violenza. “La sua libertà di scelta non rappresenta la sua grandezza, ma il suo permanente dramma. Egli si trova sempre di fronte all’alternativa di una “possibilità che sì” e di una “possibilità che no” senza possedere alcun criterio di scelta. E brancola nel buio, in una posizione instabile, nella permanente indecisione, senza riuscire ad orientare la propria vita, intenzionalmente, in un senso o nell’altro”, scriveva Kierkegaard, un pensiero che ci aiuta a comprendere il sentire del nostro tempo, interpretando l’espressione artistica di Giacometti e non solo, perché in fondo ogni produzione letteraria, figurativa o plastica che sia, è sempre caratterizzata dalla visione della propria epoca e di come l’uomo affronta la Storia.