Baia sommersa: spuntano nuovi tesori

Dopo circa 40 anni le acque del golfo di Pozzuoli tornano ancora a restituire mosaici e statue sommerse. Il ritrovamento è stato annunciato da Fabio Pagano, Direttore del Parco Archeologico Campi Flegrei e dal responsabile del Parco Sommerso di Baia, Enrico Gallocchio, durante la VI edizione Archeocamp, rassegna di Archeologia Subacquea, organizzata dal Centro Sub Campi Flegrei.
“Una meravigliosa ed emozionante riscoperta di questo mosaico con cornice ad onde, in tessere nere e rosa su fondo bianco, che decorava una stanza nel Portus Julius” riporta il Centro Sub Campi Flegrei, descrivendo il mosaico raffigurante un uccello acquatico, dalle sembianze di una folaga o di una gallinella d’acqua. L’archeologia subacquea o anche la ricerca archeologica su reperti sommersi, è una branca di applicazione della disciplina archeologica e si articola in più settori specifici: marino, fluviale, lagunare e lacustre. Volendo prendere in esame il settore marino, esempi ne sono il sito archeologico subacqueo di Baia – il più grande centro termominerale dell’antichità collocato nell’insenatura occidentale nel Golfo di Napoli e Pozzuoli (Sinus Puteolanus), area di interesse economico di fine Repubblica e inizio Impero Romano. I siti sono caratterizzati da bradisismo che ha determinato il lento sprofondamento e immersione della fascia litoranea.
Lo sviluppo dell’archeologia subacquea ha origini relativamente recenti: tra il 1853 e il 1854 l’abbassamento delle acque nei laghi svizzeri ha portato alla luce numerosi manufatti, ma escludendo i recuperi di reperti ad opera di pescatori di spugne, i primi significativi interventi di scavo si sono avuti tra la fine degli anni ’50 e ’60. L’esplorazione sottomarina di Baia ha avuto un avvio lento: nel 1923 è stata rinvenuta la testa di Amazzone arpionata, ruderi sommersi e strade basolate. Il dragaggio risalente al 1927 ha portato alla luce architetture, bassorilievi, sculture e mosaici. Nel 1941 sono iniziate le prime immersioni sul luogo, con modalità ancora inadeguate ad affrontare l’archeologia subacquea, difficoltà a cui si è aggiunta la natura melmosa del fondale che ha sempre ostacolato una visibilità appropriata.
Lo scavo ha previsto inoltre la collaborazione di esperti chimici e fisici nell’analisi di eventuali legni provenienti dalle imbarcazioni o resti malacologici. In presenza di reperti fragili, il materiale non è stato estratto dall’acqua ma lasciato sul fondale ricoperto dallo strato limaccioso come protezione. Anticamente il golfo di Baia è stato definito lacus per la forma circolare simile al lago d’Averno. I primi lavori di rilevamento sono avvenuti il 22 settembre 1959 a bordo della nave Daino, ma solo nel 1969 c’è stato il ritrovamento del Ninfeo di Punta Epitaffio i cui scavi archeologici sono iniziati ufficialmente nel 1981. Si è trattato inizialmente del particolare recupero di due statue, una delle quali acefala, raffiguranti un liberto con una coppa tra le mani e il compagno con un otre sulla coscia. I reperti, rinvenuti durante gli scavi ad una profondità di 7 metri sotto il livello del mare, oggi sono visibili nelle copie riposizionate dove si trovavano collocati in origine nelle nicchie laterali di una grande sala rettangolare con funzione di triclinium, conclusa da una sezione absidale semicircolare. La sala viene definita abitualmente ninfeo per la tipica presenza di giochi d’acqua, caratteristici del tipo architettonico. L’archeologia subacquea di solito comporta una serie di problemi rispetto al recupero sulla terra: l’azione dei foraminiferi e problemi fisiologici per gli operatori a seconda della profondità dei reperti in alto fondale. A dispetto di evidenti difficoltà vi sono, tuttavia, anche dei vantaggi come ad esempio la differente pressione che, secondo il principio di Archimede, permette di sollevare oggetti molto pesanti con cesti attaccati a palloni con aria compressa. Oltre all’Esedra del Ninfeo, nel 1967 è stato individuato un magazzino di lucerne risalente al I secolo d.C. usate probabilmente per le Lampadoforie o per illuminare il porto di Pozzuoli per l’arrivo di Caligola che avrebbe solcato di notte un ponte di navi. Le lucerne sono state custodite come sospese, “immerse” nel tempo lontano, sepolte sotto strati di sassi e sabbia, per cui Armando Carola, capo équipe, ha messo a disposizione un compressore chiuso da una rete metallica per ripulire la spessa coltre di deposito fangoso. Le lucerne sono state poi depositate presso l’Anfiteatro di Pozzuoli e, grazie all’intervento dell’archeologo Giorgio Buchner, hanno raggiunto il Museo Archeologico Nazionale di Napoli.
“Più che recuperi singoli […] si tratta di un vero scavo archeologico sottomarino […]. In questa vasta area coperta dal mare c’è una nuova Pompei, una città ricca di vile lussuose e altri numerosi edifici”, ha affermato l’archeologo Alfonso De Franciscis, augurandosi che per Baia e Pozzuoli non si ripeta lo stesso errore di Ercolano, contraddistinto dal mero desiderio collezionistico, trascurando la conoscenza come fine ultimo di tali esplorazioni.

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