“L’incognita”, il romanzo matematico e psicologico di Hermann Broch
L’opera di Hermann Broch, scrittore austriaco di origine ebraica, considerato uno dei più grandi del Novecento, si caratterizza per una prosa dal carattere stilisticamente complesso, temi particolarmente mistici e al contempo vicini alla realtà di tutti i giorni. Broch scrive romanzi, opere teatrali, saggi circa il problema della ricerca scientifica, si occupa anche di cronaca. È l’interprete e ricostruttore della storia del Novecento, principalmente colui che sperimenta tutte le possibilità del moderno romanzo psicologico. Lui stesso definisce “L’incognita” (1933), “il romanzo dell’intellettuale”, cioè il romanzo di ogni uomo che nella vita sia portato a svolgere un’attività puramente conoscitiva. L’autore ha sapientemente dimostrato che le materie scientifiche, nella fattispecie la fisica e la matematica, seppur apparentemente disconnesse dal mondo della letteratura, intrattengono un rapporto fortemente simbiotico. Tutto ciò avviene attraverso la narrazione della vita di una famiglia viennese di fine Ottocento, immersa in un contesto sociale che vive il crescente processo d’urbanizzazione e d’espansione economica. Tre fratelli – Richard, Susanne e Otto – sono rimasti a convivere nella casa paterna in seguito alla morte del padre. Ognuno sceglie un modo diverso per avvicinarsi alla verità, l’incognita appunto. Richard, il maggiore, la cerca nella scienza e in un amore di compromesso, Susanne prova a cercarla nella fede cristiana, mentre Otto, il minore, cerca risposte nell’amicizia e nell’edonismo. I tre, appartenenti alla piccola borghesia, patiscono in modo insolito la scomparsa della figura paterna: quest’ultimo ha infatti lasciato in casa un’atmosfera d’incertezza. L’esistenza del protagonista, Richard, è interamente dedita alla conoscenza, unica meta della sua vita: «era nella scuola e nella sua regolarità che egli aveva trovato almeno un po’ di quella chiarezza e univocità che gli era stata tolta da fanciullo. Per questa ragione egli aveva sviluppato in sé, assai presto, un’inclinazione per le cose chiare, matematicamente precise» (cap.2, pt.I). Mentre Otto, che ha uno stretto legame con Susanne, vuole diventare pittore, Richard è un matematico puro, caratterizzato da una “goffa inettitudine”, un individuo che disprezza le ricerche nel campo della fisica e che, nel corso della storia, ottiene un posto di lavoro in un osservatorio astronomico («proprio l’amore di suo padre per il cielo notturno lo aveva tenuto lontano dall’astronomia, era alla notte e non ai figli che era diretto l’amore di quell’uomo, e la sua malefica influenza continuava a farsi sentire, come se non fosse lecito sostituire l’ambiguità della sfera notturna e della sua oscura luce con il chiarore solare della conoscenza», cap.IV, pt.1). Il finale tragico dell’opera ruota intorno alla figura del pittore mancato, Otto: il suo mondo aveva dimensioni umane, i suoi desideri, il suo amore, le sue gioie, le sue feste, erano chiuse entro la sfera delle cose realizzabili, elemento in cui differisce dai due fratelli, l’uno teso verso la razionalità pura e l’altra verso l’esasperata religiosità. In tutta l’opera viene menzionato il padre come una figura che richiama la morte e l’oscurità: egli aveva infatti condizionato tutta la famiglia, la quale aveva ereditato solo un’indeterminatezza che perseguiterà Richard nel corso dell’adolescenza. Era un uomo freddo e poco paterno, che viveva nell’oscurità della notte. È proprio il dualismo giorno/notte a rappresentare la contrapposizione tra conoscenza formale e intuitiva, tra la razionalità e l’irrazionalità, tra la vita e la morte. Il carattere ombroso del padre aveva influenzato la famiglia tanto che tutti si chiedevano il perché della loro esistenza, l’incognita che si celava dietro ad essa. L’unico a ricordare l’aspetto fisico del padre è proprio Otto. Anche Susanne, come i suoi fratelli, patisce questo stato familiare poco sereno e vuole entrare in monastero. Addirittura trasforma la sua stanza in una cappella. Il suo cattolicesimo, tuttavia, non ha nulla a che fare con il reale misticismo del romanzo, in quanto esso viene visto come un qualcosa di casuale. Ai tempi, infatti, si aveva una conoscenza molto limitata del mondo ecclesiastico, pari a quella di un laico. La sua religiosità è più un passatempo personale che una vocazione. Il vero protagonista del romanzo, Richard, considera invece la matematica come una religione: essa non figura come una semplice disciplina fatta di calcoli, numeri e formule, ma “ha un grande valore simbolico”. Per Richard la matematica è in ogni singola cosa che avviene ogni giorno, in ogni aspetto della sua vita, anche quando di notte nella stanza da letto si ferma ad osservare il paesaggio fuori, sotto il chiaro di luna. Il primo problema che questo romanzo affronta è l’individuazione delle condizioni preliminari che inducono un uomo estraneo alla classe borghese ad abbracciare una vita puramente intellettuale, una vita dedita alla conoscenza. Ogni aspirazione dell’uomo tesa alla conoscenza pura può però sfociare in una concezione platonica del mondo, nella quale la realtà empirica viene interamente superata e dissolta nell’io. Con il venir meno del supporto universale della teologia, l’intellettuale è stato respinto nei campi particolari, separati, della ricerca scientifica, laddove il continuo sviluppo della matematica restringe sempre più la possibilità di un suo avvicinamento a quei settori che alla conoscenza razionale sfuggono. Da ciò nasce il secondo problema del romanzo: in che modo può Richard, partendo dalla matematica, raggiungere la soluzione dei massimi problemi soprarazionali (i problemi dell’etica)? Egli compie, in un primo tempo, l’inutile sforzo di trovare nell’ambito della matematica la soluzione, nella speranza che i fluttuanti confini della scienza ed i problemi dell’infinito matematico si identifichino con i problemi della vita. In conclusione, si rende conto che la conoscenza razionale e scientifica è solo una parte di quella più semplice e grande, conoscenza indimostrabile quanto evidente, racchiudente in sé vita e morte, razionale e irrazionale. Richard Hieck non è altro che un uomo che spinge umilmente il suo carretto e collabora così alla costruzione del futuro, il quale è sempre una funzione di spirito e conoscenza.