Resta viva, Virginia Woolf e il coraggio delle Donne
“Le donne hanno illuminato come fiaccole le opere di tutti i poeti dal principio dei tempi. […] Infatti, se la donna non avesse altra esistenza che nella letteratura maschile, la si immaginerebbe una persona di estrema importanza, molto varia; eroica e meschina, splendida e sordida; infinitamente bella ed estremamente odiosa, grande come l’uomo, e, pensano alcuni, anche più grande. Ma questa è la donna nella letteratura. Nella realtà, come osserva il Professor Trevelyan, veniva rinchiusa, picchiata e malmenata. Ne emerge un essere molto strano e composito. Immaginativamente, ha un’importanza enorme; praticamente, è del tutto insignificante. Pervade la poesia, da una copertina all’altra; è quasi assente dalla storia. Nella letteratura, domina la vita dei re e dei conquistatori; nella realtà, era la schiava di qualunque ragazzo i cui genitori le avessero messo a forza un anello al dito. Dalle sue labbra escono alcune tra le parole più ispirate, alcuni tra i pensieri più profondi della letteratura; nella vita reale non sapeva quasi leggere, scriveva a malapena, ed era proprietà del marito”. Così, sul finire dell’Età vittoriana e l’inizio del Novecento, scriveva Virginia Woolf, figura di rilievo nell’ambiente letterario londinese, scrittrice e attivista britannica che per tutta la propria vita rivendicò “una stanza tutta per sé”, dal titolo di uno dei suoi più celebri saggi.
In queste parole si fa riferimento al bisogno della legittimità, del riconoscimento artistico e poetico non solo in quanto individuo, ma in quanto donna; della agognata libertà di essere arte e crearla, renderla fruibile non attraverso uno pseudonimo maschile, il più delle volte facente riferimento alle iniziali del proprio nome, ma appropriarsi del proprio spazio nel mondo.
Tale testimonianza riecheggia nelle nostre menti come un qualcosa di lontano, attempato, scalfito ormai dalla voce del progresso, archiviato da una società contemporanea e globalizzata, che possa offrire pari opportunità a uomini e donne, educando i giovani che costituiranno il nerbo della nostra società al rispetto, al tatto e alla gentilezza nei confronti del prossimo. Sembrerebbe, eppure non è ancora così. Nel 2023 nel nostro Paese sono attualmente 106 le donne uccise, di cui 87 in ambito familiare e affettivo. Nei casi in cui sia stato scoperto l’autore, il 92,7% delle donne è vittima di un uomo, mentre nel caso la vittima sia un uomo nel 94,4% dei casi l’omicida è un uomo (cfr. dati Istat). È bene sottolineare come gli antropologi concordino sul ritenere non tutti gli omicidi di donne dei femminicidi: quest’ultimo infatti «implica norme coercitive, politiche predatorie e modi di convivenza alienanti che, nel loro insieme, costituiscono l’oppressione di genere, e nella loro realizzazione radicale conducono alla eliminazione materiale e simbolica delle donne e al controllo del resto […]» come riporta Marcela Lagarde nel suo lavoro Identidades de género y derechos humanos. La construcción de las humanas nel 1997.
Dato il forte ascendente mediatico che la piaga sociale esercita sui principali mezzi di comunicazione, affinché non si incappi in generalizzazioni o fraintendimenti, bisogna porre attenzione all’etimologia del termine “femminicidio”, che di per sé trasmette tutta la tragicità dell’atto.
Utilizzato per la prima volta dalla criminologa femminista Diana H. Russell all’interno di un articolo del 1992, il sostantivo sta ad indicare le uccisioni di donne da parte dei propri partner e non, per il solo fatto di essere donne.
Ciò denota immediatamente la componente misogina e patriarcale dell’evento, oltre che la visione della donna identificata in un oggetto da possedere, la cui perdita comproverebbe nella mente degli aguzzini una “lesione personale” del proprio essere uomo.
Da questo punto di vista, ancora una volta ci giunge in aiuto Virginia Woolf, spiegando quello che potrebbe essere il tessuto sociale di partenza dei nostri tempi: “Per tutti questi secoli le donne hanno avuto la funzione di specchi, dal potere magico e delizioso di riflettere raddoppiata la figura dell’uomo. […] Perciò Napoleone e Mussolini insistono tanto enfaticamente sull’inferiorità delle donne, perché se esse non fossero inferiori cesserebbero di ingrandire loro. Questo serve in parte a spiegare la necessità che gli uomini spesso sentono delle donne. E serve a spiegare come li fa sentire inquieti la critica femminile; come a lei sia impossibile dir loro che il libro è brutto o il quadro difettoso, o cose del genere, senza provocare assai più dolore e suscitare assai più rabbia di quanta potrebbe suscitarne un uomo con la stessa critica. Perché se la donna comincia a dire la verità, la figura nello specchio rimpicciolisce; l’uomo diventa meno adatto alla vita”.
È bene ribadire che gli atti di violenza che colpiscono le donne non costituiscono incidenti isolati o patologie psichiatriche, quanto più si configurano come l’acme di un continuum di pressioni di carattere economico, psicologico, fisico o sessuale. Nella maggior parte dei casi, è il quadro psicologico degli assassini ad incutere più timore: la letteratura ci proporrebbe un ritratto austero, torvo e inquieto di tali uomini, ma il più delle volte è proprio “il bravo ragazzo che la amava, che le preparava i biscotti” a privare le donne del futuro, della vita, della libertà. Uomini che conoscono forse più di chiunque altro le loro vittime, che possiedono la freddezza di privarle della possibilità di scelta, ma non hanno abbastanza coraggio di accettare di non essere più parte di quel sistema dominante, che vede la figura femminile come associata indelebilmente al proprio compagno. “Oggi non abbiamo paura di essere visti troppo, abbiamo paura della solitudine, il virus che mina e compromette il senso della vita è l’esclusione, l’abbandono”, affermava il sociologo polacco Bauman. Per quanto la società possa combattere e manifestare il proprio dissenso verso una realtà in fase di regressione, è la rivoluzione culturale che più urge nel nostro tempo, una visione comportamentale che parta da giovani ragazzi consapevoli dei propri limiti e giovani donne consce della loro libertà. È la “cultura dei NO” tanto invocata nell’ultimo periodo, a destare interesse tra i pedagogisti, il tema del conflitto, su cui lavora ad esempio Daniele Novara, il quale afferma: “se non impariamo a gestire bene la contrarietà, è logico che poi nella vita di coppia il rischio è fare la mossa sbagliata. Nelle persone violente noi abbiamo scoperto che c’è sempre questa carenza conflittuale. Ovvero l’incapacità di gestire le relazioni di contrarietà con gli altri”.
La vera battaglia, oltre che culturale, dovrà avvenire attraverso la coesione sociale, rivendicazioni riguardanti la conquista di uno statuto di uguaglianza rispetto alle identità̀, ai diritti e alle prerogative del soggetto maschile, non contro il soggetto maschile in sé, ma contro uomini assassini che privando le donne della vita rigettano ogni principio identitario, ogni logica e ragione che ci vede cittadini del mondo.
Lotteremo affinché Giulia Cecchettin, Etleva Kanolja, Annalisa D’Auria, Concetta Marruocco, Giulia Tramontano e tutte le altre numerosissime vittime di femminicidio, restino vive.