Una lapide in Via Mazzini, Giorgio Bassani e la narrazione della Shoah
“Con la paura e con l’odio non si ragiona. Che si fosse voluto, invece, per tornare a Geo Josz, comprendere qualcosa di ciò che realmente egli volgesse nell’animo”.
È la voce del rimosso, dell’indifferenza, del pregiudizio quella che impiega Giorgio Bassani, scrittore contemporaneo del Secondo dopoguerra, allontanato dall’ambiente sociale e culturale ferrarese e bolognese, dove spesso studia, “perché israelita”.
Classe 1916, nasce a Ferrara da una famiglia che fa parte della borghesia cittadina da almeno quattro generazioni. Frequenta il Liceo Ariosto, è appassionato di pianoforte e di tennis. Nel 1934 si iscrive alla Facoltà di Lettere di Bologna, laureandosi con una tesi su Tommaseo.
Nel 1938 l’infausta notizia approvata dal Gran consiglio del fascismo e pubblicata sul “Foglio d’ordine” del Partito nazionale fascista il 26 ottobre 1938, il Regio Decreto Legge 5 settembre 1938, n. 1390, vede presi “Provvedimenti per la difesa della razza nella scuola”.
L’entrata in vigore delle leggi razziali costringe allievi e Professori ebrei di tutta Italia all’allontanamento e lo stesso Bassani, allora Professore del liceo ferrarese Ariosto, si trasferisce nelle aule del vecchio asilo israelitico di via Vignatagliata n. 79, nell’antico ghetto ferrarese. Lo scrittore inizia a divulgare le proprie opere con lo pseudonimo di Giacomo Marchi, dal momento che le leggi razziali impediscono a un ebreo di pubblicare col proprio nome. Nel maggio del 1943 Bassani viene arrestato e una volta rilasciato decide di abbandonare Ferrara trasferendosi a Firenze, mentre i suoi parenti rimasti a Ferrara vengono deportati a Buchenwald, fatta eccezione per i genitori e la sorella, che si salvano miracolosamente nascondendosi in un armadio. Durante gli anni a seguire, l’autore ferrarese, si sposta tra Roma e Napoli; continua a diffondere i suoi scritti, è impiegato avventizio al Ministero del Lavoro, ufficio Reduci di guerra e si dedica alla rivista italiana «Botteghe oscure», di cui diventa redattore. Agli inizi del 1950 inizia a insegnare all’Istituto Nautico di Napoli. Nel ’51 si trasferisce alla Scuola d’Arte di Velletri. Scrittura e sceneggiatura diventano le sue passioni. Scrive con Jean Ferry, Sandro De Feo e Mario Soldati le scene del film di Soldati La provinciale, tratto dal racconto omonimo di Moravia, collabora inoltre al film La romana di Luigi Zampa ed infine, in ambito letterario, scopre e pubblica Il Gattopardo di Giuseppe Tomasi di Lampedusa, prova del tormentato Risorgimento italiano, ancora da ben decifrare.
Nel 1956 pubblica da Einaudi le Cinque storie ferraresi con cui nel luglio si aggiudica il premio Strega. Risale invece al 1962 la pubblicazione da Einaudi de Il giardino dei Finzi-Contini, con la quale vince il premio Viareggio.
É indubbio che la narrativa di Bassani abbia argomento politico, d’altronde deriva tutta dal suo trauma fondante, la persecuzione antisemita, vista tra indifferenza ma al contempo curiosità nella società borghese di Ferrara. Bassani, come Catullo, odia e ama la sua terra: ne sente le radici, il richiamo, ma ne è troppo deluso, tanto che non la cita mai espressamente.
« […] il problema era questo: continuare a scrivere “F.” oppure scrivere chiaro e tondo “Ferrara”? Bassani fino a quel punto – i primi anni Cinquanta – aveva sempre scritto “F.”. Ferrara non andava nominata. Doveva restare, da una parte, nell’oscurità, dall’altra doveva ambire all’Universalità. Ciò era garantito dall’uso misterioso e gloriosamente convenzionale della sola iniziale», scrive Pier Paolo Pasolini nel 1974, per il primo volume del Romanzo di Ferrara.
Nel racconto Una lapide in Via Mazzini, Bassani realizza una cronaca della Shoah solo apparente: l’ambientazione negli anni ’50 risulterebbe, nella sua veridicità storica, totalmente impropria, dati il forte antisemitismo e i frequenti revival neonazisti.
La narrazione si rivela carezza e schiaffo. Carezza perché nella figura di Geo è deposta tutta l’ingenuità di un uomo che crede nell’empatia, nella comprensione della propria condizione e nella missione di testimone diretto della storia. D’altro canto però, la resa di Bassani di una società cieca, sorda, indifferente, colpisce allo stomaco dritto come un pugno.
Geo Josz, figlio primogenito di un commerciante di tessuti, torna inaspettatamente dal campo di concentramento di Buchenwald dove era stato deportato nel 1943. Geo cammina per le vie cittadine, si ferma in Via Mazzini dove un operaio è intento ad affiggere una lapide commemorativa sulla facciata del Tempio Israelitico, ma presto legge sulla lastra “Geo Josz”. Beffardamente scoppia a ridere leggendo il proprio nome tra quello delle altre 183 vittime dell’Olocausto. Geo è accolto con diffidenza e talvolta fastidio: è il 1945, viene interrotto il clima festoso della fine della guerra, dove tutti si sentono vivi, ma Geo non viene trattato da sopravvissuto, Geo è un fantasma, un monito in carne ed ossa della storia.
È come se, dal protagonista del racconto, fosse stata vissuta una katabasi nel regno degli inferi, difatti storicamente non c’è nulla che si avvicini all’oltretomba più di un campo di concentramento.
“Quella sera del dancing, per esempio, dove si era messo a mostrare a destra e a sinistra le fotografie dei suoi familiari periti a Buchenwald, era arrivato a un tale eccesso di petulanza da cercare di trattenere per le falde dei vestiti giovanotti e ragazze che di niente altro avevano desiderio, in quel momento eccetto che di lanciarsi sulla pista da ballo”.
Bassani in tempi brevissimi e precoci riesce a dare una narrazione della Shoah imperitura nei decenni: paura e commiserazione, indifferenza e pietà, luci ed ombre. Nel 1956, anno di pubblicazione del racconto, era troppo presto per accettare, metabolizzare, comprendere e ricordare; oggi, nella Giornata della Memoria 2024, alla luce dei numerosi conflitti disseminati per il mondo, non vogliamo che sia troppo tardi per ricordare.