A Firenze la mostra “Angeli caduti” di Anselm Kiefer
«Dio non risparmiò gli angeli che avevano peccato, ma li precipitò in abissi tenebrosi, tenendoli prigionieri per il giudizio» (2 Pietro 2,4). La seconda lettera di San Pietro riporta l’evento biblico della caduta degli angeli dal Paradiso al Tartaro. Secondo le Sacre Scritture, infatti, un gruppo di angeli decide di disobbedire a Dio ordendo una sollevazione contro di Lui. Tra gli oltraggiosi, uno dei più noti fu Lucifero, menzionato anche nel libro di Isaia e un tempo noto con lo pseudonimo di “portatore di luce”.
Il tema della caduta degli angeli dal Paradiso ha ispirato artisti di tutte le epoche, partendo dai Fratelli Limbourg, La caduta degli angeli ribelli, (1411-1416); Pieter Bruegel il Vecchio, La caduta degli angeli ribelli, (1562); Andrea Commodi, La caduta degli angeli ribelli, (1600); Peter Paul Rubens, La caduta degli angeli ribelli, (1621); Giovanni Odazzi, Caduta degli angeli ribelli, (1709); William Blake, angeli caduti, (1793), sino ad arrivare al più contemporaneo Gaetano Previati, La caduta degli angeli, (1913).
Il sentire dell’umanità è al tempo stesso attratto e impaurito dal sentimento che deriva da una caduta, in senso metaforico o letterale del termine: basti pensare al dolore infantile di un ginocchio sbucciato, sino a una sofferenza adulta, chiaramente più intensa e introspettiva, proveniente da un errore lavorativo o amoroso. Un’attrazione sublimante potremmo definirla, sulla scorta dell’idea di Burke, per cui “tutto ciò che può destare idee di dolore e di pericolo, ossia tutto ciò che è in un certo senso terribile o che riguarda oggetti terribili, o che agisce in modo analogo al terrore” è sublime. Appartiene a questa categoria Madre natura, nei suoi scenari più selvaggi come mari in tempesta, affascinanti eruzioni vulcaniche e dunque eventi fondanti dell’immaginario collettivo storico-religioso.
Il fulcro tematico fin qui delineato è protagonista di un’originale mostra a Palazzo Strozzi di Firenze, in programma fino al 21 luglio 2024, a cura di Arturo Galansino. Promossa e organizzata dalla Fondazione Palazzo Strozzi, in collaborazione con il Comune di Firenze, Regione Toscana, Camera di Commercio di Firenze, l’esposizione dona voce ad uno dei più importanti artisti contemporanei, Anselm Kiefer, pittore e scultore tedesco che ha esordito a ridosso degli anni Sessanta, in un difficile scenario permeato dalla Guerra Fredda.
Classe ‘45, dopo iniziali studi di Legge, abbandona il corso per dedicarsi all’arte e nel 1977 viene chiamato per esporre a “dOCUMENTA” di Kassel, una delle più importanti manifestazioni internazionali d’arte contemporanea europee. Nel 1980 la Biennale di Venezia dedica all’artista una mostra personale titolata “Verbrennen-Verholzen-Versenken-Versanden”. Il successo arriva anche oltreoceano grazie alle esposizioni negli USA, ma insieme alle gratificazioni non mancano critiche per la scelta di Kiefer di narrare gli eventi sociopolitici-religiosi in chiave scomoda, dando identità a luoghi e ambienti sedi delle tragedie dell’umanità. È il caso di opere dedicate alla storia ebraica, in particolare a uomini donne e bambini che hanno perso la vita nei campi di stermino nazisti.
Entra in gioco per Kiefer l’angoscia del ricordo della strage: memorie personali e collettive si fondono affrontando la storia con i suoi tabù, in modo catartico, grazie allo spazio offerto dalla tela che si fa superficie portato di valenza simbolica, allegorica.
Tra storia, filosofia, poesia, l’artista tedesco realizza istallazioni dalla forte componente materica, utilizzando svariate tecniche: l’elettrolisi o il fuoco sono tra le più quotate, per mezzo delle quali gli elementi come terra, sabbia, cera, piante di girasole e semi, tessuto e piombo, subiscono trasformazioni fisiche, rendendo la superficie dell’opera butterata, spessa, grezza e visivamente irregolare. Tali tecniche attingono alla letteratura e alla mitologia tedesca, al potere del fuoco come forza demiurgica, alla leggenda di Prometeo, il titano ribelle che osò rubare il fuoco agli dei per donarlo agli uomini, un gesto ribelle che al tempo stesso denota amore verso l’umanità e la conoscenza.
Intorno agli anni Novanta, Kiefer inizia la produzione di xilografie e riscoperta di tematiche quali L’anello del Nibelungo di Wagner, la poesia di Paul Celan e Ingeborg Bachmann e riferimenti religiosi biblici ed ebraici. Il legame con la terra d’origine è forte tanto che la sua pittura è stata etichettata come neoespressionista o “nuovi selvaggiˮ per l’uso di un cromatismo acceso, ricorso alla figurazione marcata, stile talvolta decostruzionista e per il recupero di alcune modalità di tradizione figurativa tedesca, antecedente al Classicismo.
«Temo di non essere un pittore di talento, non abbastanza da produrre un cambiamento. Sì, un fallimento continuo. Un dipinto non è mai finito, vado sempre avanti. Ho dei quadri vecchissimi su cui lavoro ancora» ha riportato Kiefer in una recente intervista per la presentazione della mostra The Consciousness of Stones, ormai terminata ma esposta lo scorso anno a Roma. Cambiamento, quello di cui parla l’artista neoespressionista, a cui ha contribuito determinando insieme ad altri le fila dell’arte del XXI secolo, caratterizzata ormai da incessanti flussi turistici, collezionismo, vendite all’asta e impatto delle nuove tecnologie. Siamo dinanzi ad un’arte svuotata di storia, che parla di storia ma non è storica. Kiefer rimane uno degli ultimi baluardi a sostenere l’importanza della ricercatezza, della Musa ispiratrice Clio, la divinità della Storia che siede con una pergamena in mano.