Il dialetto, la spezia del nostro linguaggio
“In italiano esistono due parole, sonno e sogno, dove il napoletano ne porta una sola, suonno. Per noi è la stessa cosa”. Così scrive nel libro Montedidio l’autore Erri De Luca, in rimando all’uso del nostro dialetto napoletano e alla forte valenza identitaria che questo esercita sulla popolazione.
Caso emblematico la canzone presentata a Sanremo da Geolier, che ha creato numerose polemiche non per la scelta e lo stile musicale, quanto più per la lingua utilizzata: il dialetto, che ha reso incomprensibile il messaggio per chi il napoletano non lo conosce affatto.
Esiste difatti un’unica e sostanziale differenza tra la lingua italiana e il dialetto, che riguarda la mancata standardizzazione di quest’ultimo e la limitazione degli ambiti d’uso: tradizionalmente il dialetto viene appreso in ambienti familiari e confidenziali, a differenza della lingua italiana nazionale che viene insegnata a scuola tramite il modello offerto dai docenti. Tale situazione è detta dilalia secondo la linguistica, ossia una condizione per cui l’italiano può essere utilizzato in campo formale e confidenziale, ma il contrario, cioè l’uso del dialetto in ambito formale, non potrà mai avvenire per ragioni di prestigio linguistico e codificazione della lingua.
Contrariamente a quanto si possa pensare, il dialetto non è una varietà figlia dell’italiano, ma rappresenta invece una lingua-sorella data la comune origine dal latino. Di conseguenza la diffusione del dialetto e il suo impiego non è legato a ragioni sociali e di appartenenza classista come potrebbero pensare alcuni, ma ad un bisogno di omologazione linguistica a partire dal Cinquecento. Esistono almeno tre macro famiglie dialettali: settentrionale, mediana e meridionale. I dialetti dell’Italia del nord sono caratterizzati ad esempio dallo scempiamento delle consonanti (mulino-mulin) o dalla presenza di particolari vocali di origine celtica; l’area mediana invece è più comprensibile e vicina ai nostri dialetti meridionali. Tralasciando il fenomeno della “gorgia”, tipicamente toscano, o la monottongazione come in nuovo-novo, sono presenti in area umbra, marchigiana e abruzzese fenomeni quali la regressione progressiva (sogno-sonno, mondo-monno) o la trasformazione di /s/ in /z/ quando preceduta da “l, r, n”: salsa diventerà “salza” nella pronuncia. Tali regole apparentemente astratte e di difficile applicazione, sono in realtà la base del nostro linguaggio e, anche se inconsapevolmente mentre parliamo il dialetto, le abbiamo assimilate tutte a partire dall’epoca osco-umbra e sannitica. Nonostante il forte impulso da parte di alcuni studiosi per raggiungere una buona padronanza dell’italiano, altri si sono dedicati proprio all’analisi e alla classificazione dei dialetti: è il caso di Graziadio Isaia Ascoli, professore all’Accademia scientifico-letteraria di Milano che tra Ottocento e Novecento muove i primi passi da autodidatta nell’ambito della linguistica e che in seguito inventa la parola “glottologia”. Ascoli è stato il primo docente italiano a realizzare studi specifici circa la dialettologia scientifica contro la soluzione di Alessandro Manzoni che aveva proposto l’adozione del fiorentino colto della varietà parlata come lingua d’uso nazionale. Gli studi teorici non sono stati l’unico approccio nei confronti della riduzione del dialetto, a partire dal 1954 infatti la Rai ha posto in atto un massiccio programma di unificazione linguistica attraverso famose trasmissioni come “Non è mai troppo tardi” di Alberto Manzi per sopperire alle statistiche di analfabetismo pari al 13% nel 1951. Grazie al ruolo della Paleotelevisione, termine coniato da Umberto Eco per indicare il forte ruolo pedagogico della TV, gli italiani iniziano a padroneggiare abilmente la lingua standard cercando di ridurre le diversità di pronuncia. Esistono infatti divergenze di dizione legate all’appartenenza regionale di ogni parlante. A teorizzare tale varietà linguistica è Giovan Battista Pellegrini che parla di “italiano regionale”, cioè la tipologia linguistica parlata da ognuno di noi senza aver seguito lezioni di corretta pronuncia. Chiaramente un milanese utilizzerà un tono, volume e lessico diverso dal nostro, magari con pronuncia di /e/ chiusa rispetto alla pronuncia di un siciliano in cui tutte le vocali vengono pronunciate come aperte. Lo sforzo di adeguamento alla norma linguistica può spesso produrre ipercorrettismi, cioè rimodulazione eccessiva per non far emergere il proprio accento, e la produzione di frasi errate come “sto antanto” con trasformazione di /d/ in /t/ per una scansione più decisa, non prendendo in considerazione che la frase è già corretta nonostante una pronuncia meridionale. Alla luce dei numerosi studi condotti e dei dati ISTAT, in Italia esiste solo un 2% di dialettofoni esclusivi, cioè coloro che parlano solo il dialetto senza conoscere l’italiano, rispetto ad un 84% di italofoni. Passi in avanti sono stati fatti grazie a docenti preparati che hanno permesso agli alunni un apprendimento completo, interiorizzando man mano le varie regole grammaticali, senza però realizzare una deprivazione linguistica dialettale.
Il dialetto è la lingua della famiglia, della confidenza, dell’appartenenza alla propria terra, talvolta della rabbia, dell’affetto, è insomma, come sostiene il linguista Massimo Palermo, “una spezia che dà sapore espressivo al nostro linguaggio” e in quanto tale va salvaguardata. Senza la nostra meravigliosa tradizione linguistica napoletana d’altronde non esisterebbero raccolte dialettali letterarie, basti pensare all’opera “Lo cunto de li cunti overo lo trattenemiento de peccerille” di Giambattista Basile, un insieme di racconti ispirati al Decameron di Boccaccio ma in lingua napoletana, che riprendono motivi popolari e tradizione folkloristica.
“Accossì comme vaje tu si tenuto | c’a sto siecolo tristo | se nnorano li panne | e non se dice cchiù da dove viene, | si non come tu vai” scrive Basile ponendo grande attualità sul pregiudizio, sull’apparenza e vacuità del nostro tempo: “come vai così sei considerato, perché in questo tristo secolo si onorano gli abiti e non si dice più da dove vieni, ma come tu vai”, una riflessione valida anche sul tema della lingua e del dialetto, considerato di serie B, quando in realtà la sua vitalità è memoria, storia, appartenenza, comprensione, una sorta di “lingua del cuore”.