Ron Mueck: sculture a pelle vera, anzi iperrealista
La prima suggestione che l’iperrealismo visivo provoca in chi lo esamina non è lo stupore, ma il sospettoso dubbio che ci si soffermi dinanzi ad un fake abilmente rimaneggiato, poi spacciato per opera d’arte manuale. È toccato agli osservatori in erba dei quadri di Richard Estes, tanto per fare un nome di risonanza nel filone; ma l’impatto con le sue opere e con quelle dei suoi colleghi solleva davvero polvere, l’incertezza dello stratagemma fotografico, piuttosto che della maniacale adozione della tecnica mimetica, ipermimetica, che congela scatti in apparenza reali. Se la soluzione fotorealista di Richard Estes o di Chuck Close induce allo scetticismo, l’iperrealismo scultoreo di Ron Mueck pratica sui fruitori una forma di stordimento, essendo in questo caso la mimesi estesa alle tre dimensioni. I lavori dell’artista di Melbourne non restituiscono le trame dei riflessi e dei giochi di luce che con accanimento certosino Estes ha invece studiato; con Mueck il problema di riprodurre gli effetti della luce neanche si pone, o almeno si riduce, tuttavia di problemi se ne presentano altri con relative conseguenze. Le sue opere sono ottenute partendo da un’armatura in metallo, rifinite con resine, paste vetrose e poliuretano; la reazione è di sconcerto, per tre cause fondanti: i soggetti scelti che imitano la quotidianità e il corpo umano, le loro proporzioni ingrandite, la similarità imponente con i modelli di riferimento. “Mask II” è il semplice volto reclinato di un uomo che dorme, ma è sviluppato in scala 1:10, o forse più, dovendo indicare a spanne, e trovarsi di fronte ad un profilo umano che tale non è amplifica umori contrastanti: non solo meraviglia presa in contropiede, ma anche una sorta di “irretimento repulsivo”: ci si ritrae dinanzi all’effetto che fa l’imitazione iperrealista di lobi, palpebre, labbra, rughe e capelli, ma intanto non ci si riesce a sottrarre dall’ammirare l’opera, ingigantita proiezione umanoide. Anche in “Couple under an umbrella” (2013) l’impianto dimensionale rende impossibile fare a meno di girare attorno ai due anziani bagnanti: la loro pelle è super-reale, raggrinzita e mutevole al reciproco tocco, la peluria, le vene in superficie, il modellamento delle masse muscolari o adipose fanno riemergere il sospetto che si tratti di essere imbalsamati, più che riproduzioni in materiale non umano. Eppure, proprio questo modulo super-reale di trattamento rende indiscusso lo sgancio, il divario tra le creazioni di Mueck e la nostra reale corporeità. Tali lavori artistici insistono anche sull’espressività emotiva dei soggetti, su cui il pubblico può riflettere e fantasticare: “Woman with shopping” e “Young couple” sono esemplari. Essendo partito dagli effetti speciali per tv e cinema, l’artista australiano agli esordi della carriera scultorea scelse un ottimale prova di lancio: “Dead dad”, un cadavere, in scala 1:2, una non-salma in nudo integrale, con orbite illividite ed infossate, con le scapole in vista; fu un cadavere ad aprirgli le porte della National Gallery di Londra e del British Museum, della Biennale di Venezia e della National Gallery di Victoria, Australia. Le opere di Mueck celebrano il corpo e l’emotività, ma sono più finte che più finte non si potrebbe; fingono un iperrealismo sbilanciato che, date le proporzioni plateali, non inganna poi tanto, al punto che ci direbbero volentieri: “Ma non vedere che siamo solo materia inerte, mai vissuta e trasformata? Almeno a quest’inganno, non credeteci”.