Tutela dell’ambiente ed esigenze energetiche nazionali

Era il 1987 e l’Italia votò per il referendum sul nucleare. Vinsero i “si” e la legge che istituiva il programma per la produzione di energia a mezzo  delle centrali nucleari fu abrogata e gli impianti via via fermati.
Allora, come del resto nella successiva tornata referendaria del 2011, passò il messaggio che i rischi, contrapposti al vantaggio di poter produrre energia elettrica a basso costo col nucleare, fossero preponderanti.
Sicuramente una decisione desiderabile se non fosse che per alcuni aspetti che, forse, furono taciuti agli italiani.
In Europa, sono ben 165 le centrali nucleari e alcune di queste, sono a pochi chilometri dai nostri confini nazionali.
La Francia, ad esempio, produce sino all’ottanta per cento di energia elettrica col nucleare col risultato che l’elettricità costa ben il quaranta per cento in meno che in Italia.
A seguito della nostra scelta “green” alcune nazioni come la vicina Slovenia, hanno costruito impianti nucleari quasi esclusivamente per venderci energia elettrica a un costo, come facilmente intuibile, molto più caro di quello che sarebbe costato a noi produrla.
Il risultato è che entro un raggio di 200 chilometri dai nostri confini, esistono ben 27 reattori nucleari.
Il 17 aprile prossimo siamo nuovamente chiamati a una tornata referendaria. Si voterà per scegliere se continuare ad autorizzare le piattaforme petrolifere “off shore”, ossia di alto mare, nelle acque territoriali italiane oppure si vuole fermare le concessioni che attualmente autorizzano lo sfruttamento di gas e petrolio nelle acque territoriali italiane.
La scelta, nuovamente, sembrerebbe scontata e si dovrebbe votare “si” volendo  bloccare tale attività estrattiva ed assicurare che mai nessun incidente possa produrre accidentali sversamenti di grezzo nelle limpide acque dei mari italiani.
Diversamente, votando “no” o vincendo l’astensionismo, tutto rimarrebbe come adesso.
In particolare, la campagna mediatica è imperniata sulle piattaforme esistenti nel mare Adriatico.
Fatto sta, tuttavia, che i dirimpettai Stati balcanici, in primis la Croazia, la pensano differentemente e le loro acque territoriali, pullulano di impianti di estrazione.
E sufficiente fare una ricerca su internet per vedere esplicite cartine dove, un mosaico di piattaforme croate popolano l’intero Adriatico sino al confine con l’Italia.
E allora ci si chiede quale sarà la conseguenza se prevalessero i “si” al nuovo referendum in caso si raggiunga il quorum dei votanti aventi diritto.
Ci si chiede, decidendo di fermare il programma petrolifero italiano “off shore”, se si andrà poi ad acquistare il petrolio estratto dalla Croazia e, comunque, anche se non incentivassimo i Paesi che rischiano di inquinare proprio i mari che vogliamo tutelare ma acquistassimo altrove, quale sarà l’onere che aggraverà ancora di più i nostri già salatissimi conti petroliferi.
Forse la verità è che queste decisioni, indubbiamente desiderabili, per avere un senso devono essere condivise a livello continentale o, per lo meno, tra i Paesi rivieraschi dell’Adriatico.

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