La triste storia del call center: esperienza diretta sotto mentite spoglie
Ai confini di Vitulazio, verso la strada che conduce a Camigliano, c’è una grande sala che ospita venti postazioni messe a disposizione di talentuosi e fruttuosi centralinisti capitanati da due giovani capigruppo: Roberta, ventitré anni, e Filippo, trentenne; questi, con grande spirito di responsabilità, insegnano ai centralinisti le fondamentali tecniche della comunicazione per conto d’importanti compagnie telefoniche; in principio per la Vodafone, oggi per la Tim.
Mi sono intrufolata per qualche giorno in quest’operosa realtà che offre tante speranze imbrattando quotidianamente i siti in cui s’inseriscono offerte di lavoro; offerte che si rinnovano così spesso perché la maggior parte degli operatori non resiste per più di un mese. Cuffie in testa e tanta sopportazione per il vociferare e i toni alti dei colleghi che per ordine dei capi devono essere grintosi e aggressivi, per catturare e mantenere l’attenzione del potenziale cliente. Devi presentarti quando la persona contattata ti risponde al telefono, se ti manda a cagare non riattaccare, prenditi gli insulti e lasciala sfogare, altrimenti sei licenziato. Inizia col dire che offri un risparmio sulla bolletta, anche se non è vero, perché una tariffa Tim a meno di 50 € al mese e per sempre non la trovi. Ma a te che ti frega, sei in un call center e devi essere produttivo, costi quel che costi.
Inizialmente chi conduce il gioco si camuffa da persona tranquilla ben disposta ad accoglierti in un ambiente sereno e professionale; qualche risata, un po’ di dialogo e tanti consigli utili per farti lavorare al meglio. Poi, man mano che il gioco avanza, “qui la responsabile sono io e tu fai quello che ti dico io”.
È necessario precisare che in questo contesto ti fanno iniziare il lavoro senza uno straccio di contratto, senza raccogliere i dati personali del neoassunto operatore (basta dare nome e recapito telefonico, il cognome non serve), senza firmare presenze e assenze. Perché possono mandarti a casa bello e buono se non gli stai bene, senza rimborsarti nemmeno i pochi giorni di prestazione (tanto tu non hai firmato nulla). L’avventura inizia facendo un’oretta di formazione, poi affiancamento, un’altra oretta di pratica e via, prendiamo le telefonate e fissiamo gli appuntamenti. E se fai subito un errore, anche inconsapevolmente, licenziamento immediato, senza nemmeno sapere quale sia il nome di questa fantomatica azienda per la quale si va a lavorare. Seduti alle postazioni, vedi ragazzi scontenti, preoccupati, che attendono con ansia quei miseri 10 minuti di pausa dalle 4 ore di lavoro per scaricare la tensione con una sigaretta, che guadagnano un fisso mensile di 300 € + incentivi (ossia 10 € dal quinto appuntamento preso e andato a buon fine) dal lunedì al sabato, per un totale di circa 25 ore di lavoro. Ci sono giovani appena diplomati, studenti universitari, mamme. Prima o poi, ci si ritrova a varcare l’ingresso di un call center perché sì, 300 € saranno anche pochi, però servono per arrotondare, serve una distrazione anche breve dalla vita familiare, serve un lavoro part time che non tolga troppo tempo allo studio, serve un’entrata fissa da aggiungere ad altri lavori fottutamente occasionali.
Ma vediamo nel dettaglio in cosa consistono le tecniche comunicative insegnate e adottate dagli illustrissimi team leader:
– omettere alcune informazioni ai potenziali clienti: “mi raccomando, non dite che devono pagare il modem, non dite che devono pagare la tassa per il cambio operatore, non dite che possono incorrere in penali, non dite che devono pagare il nuovo impianto telefonico, non dite che non avranno mai fino a 300 mega di fibra”;
– mettere i ragazzi sotto pressione, anche a costo di far dire cazzate alle persone allo scopo di convincerle a prendere un appuntamento con l’agente di zona per far firmare loro un contratto che non sanno quanto costerà realmente;
– urlare spesso in testa agli operatori, disturbando e distraendoli, così si mantengono svegli e attivi.
La presunzione e l’aggressività con cui i team leader si rivolgono ai ragazzi, minacciandoli di licenziarli in tronco al minimo sbaglio, non carica di meraviglia. Sono tecniche già note e necessarie per far funzionare questo ambiente di lavoro, anche se constatarle personalmente fa comunque un certo effetto. Che poi siano dei giovani a farlo è ancora più inquietante: Roberta, la “responsabile” del team, ha solo 23 anni. Questa giovanissima capogruppo, un giorno l’ho sentita rimproverare un’operatrice neoassunta di 10 anni più grande di lei perché aveva riagganciato la telefonata a un signore che la stava insultando, “per me puoi pure andartene a casa, per queste cose c’è il licenziamento”.
L’opinione comune è che i call center siano un covo di truffatori; diciamo piuttosto che le informazioni comunicate dagli operatori non sono complete, che nella maggior parte dei casi sono anche errate e che vengono omessi alcuni dettagli; poi ci penserà l’agente a mettere al corrente il cliente su cosa andrà incontro. Qui si va ad innescare un meccanismo perverso e inaccettabile, da segnalare a chi ha il dovere di vigilare: inizio del lavoro senza contratto e istigazione alla menzogna possono essere motivi sufficienti per reclamare. Per ovvie ragioni, nel presente articolo si è mantenuta la privacy, ma chi c’è dentro fino al collo non deve aver timore di portare alla luce tutto ciò che accade in una qualsiasi realtà lavorativa, call center e non. Un ambiente in cui si urla e si pratica mobbing non è un ambiente sano e sereno; essere a capo di un’azienda o di un team non è sinonimo di sfruttamento, maltrattamento e umiliazione. È vero che c’è la crisi e quando arriva la possibilità di un lavoro sembra aver ricevuto un miracolo: ma ne vale davvero la pena sottomettersi a vessazioni disumane addirittura per pochissime centinaia di euro al mese?