La storia del soffritto napoletano
“Prendi un polmone di porco, taglialo a pezzetti e mettilo in una cassarola a soffriggere con inzogna abbondante, e se ti piace un senso d’aglio e qualche fronna di lauro. Quando s’è ben soffritto aggiungi un paio di cucchiaiate di conserva di peparoli rossi dolci, per darli un bel colore, e cerasielli in polvere quanti ne vuoi, per darli il forte, aggiungendovi una competente quantità d’acqua col sale o di brodo, e continua a far cuocere tutto a fuoco lento. Se dapprincipio non ci hai posto le fronne di lauro e vuoi darli sapore, mettici a questo punto un mazzetto di erbe aromatiche, cioè Rosmarina, salvia, lauro, majorana e peperna. Quando vuoi servirlo, togli dette erbe e spargilo fumante nei piatti, sopra croste di pane. Placet Etiam Majestati”. Sul retro di uno strumento notarile del 1743, con tanto di Regio Placet, è riportata una ricetta del soffritto dettata da una certa Annella, proprietaria di una taverna di Porta Capuana, frequentata da numerosi legali data la sua prossimità al tribunale napoletano. Si tratta, proprio come si evince anche dalla preziosa fonte, di un piatto molto ricco nonostante sia realizzato con ingredienti molto semplici, quali interiora di maiale, salsa, rosmarino, alloro e peperoncino, che lo rendono un ottimo condimento per la pasta od un sostanzioso secondo. Si sa, però, che il medesimo termine è anche impiegato per indicare la classica base per sughi di carne e di pesce, di consueto realizzata sminuzzando carote, cipolle e sedano lasciati a stufare con olio d’oliva. Altre fonti informano che il soffritto, o saporiglio, o otosciano, altri nomi con cui è meno comunemente noto, veniva preparato per riciclare tutte le parti del maiale. Si narra, addirittura, che nella Napoli di un tempo ci fossero casalinghe che, per guadagnarsi qualche spicciolo, si cimentavano nella preparazione prima e nella vendita poi di questa squisita prelibatezza. Nei “vasci” della città, in quei “bassi ove vive e mal vive il popolo” come scrive Matilde Serao ne “Il ventre di Napoli”, si cercava sempre di industriarsi in qualche modo per guadagnarsi da vivere. Ragione questa che induceva le donne a cuocere in grossi pentoloni il soffritto con cui poi farcivano pezzi di pane che rivendevano alle persone che passavano di lì prima di andare a lavoro.