Intervista a Milena Magnani
"La resurrezione è un tendone ripiegato, da montare di nuovo. Qui siamo tra giostrai, gente che non
dimentica. Accompagna la storia una lingua sorella gemella della musica": già queste belle parole, estratte da una più ampia recensione dello scrittore e traduttore Erri De Luca, introducono nell'atmosfera del nuovo romanzo, "Il circo capovolto", della scrittrice italiana Milena Magnani, bolognese laureata in Scienze Politiche e Sociali, educatrice in psichiatria, impegnata in particolare nel sostegno a tossicodipendenti e nomadi. L'opera spazia dalla storia di un circo zingaro e della sua meravigliosa arte, nell'Ungheria del passato, alla miseria ed all'emarginazione di un campo rom del presente italiano, posto sull'orlo di una tangenziale, nell'estrema, anonima, periferia di una qualunque grande città dell'Italia. Il campo viene periodicamente visitato da operatori sociali e polizia, ed i suoi abitanti, in parte spostatisi volontariamente, per consuetudine di vita, dalle terre di origine, ed in parte profughi dalle guerre balcaniche, sopravvivono in vari modi: c'è chi cerca lavoro, chi chiede l'elemosina, chi, tossicodipendente, commercia in droga per procurarsi la dose, chi si dedica a svariati lavori. Tutti, comunque, sono vittime, per molti aspetti, di una situazione di isolamento. La vita nel campo viene descritta anche nella sua crudezza, con uno stile non edulcorato… eppure, la scrittura del testo ha anche elementi tipici del realismo magico: la voce narrante in prima persona è proprio di chi non ci si aspetterebbe, e rievoca, inoltre, gli splendori del tempo in cui la sua famiglia, come molte altre famiglie zigane, fu realizzata nelle sue attività artistico-lavorative, oltre che celebre, avendo attorno un alone di magia. Il libro presenta anche un interessante sfondo storico reale sulle vicende degli zingari in Europa, molti dei quali furono segregati in campi di concentramento, dalla fine degli anni '30 al pieno della Seconda Guerra Mondiale… E' importante infatti ricordare che, storicamente, considerati "asociali" e "portati a delinquere", oltre che ariani "imbastarditi" (si considerava che ci fossero anche zingari "ariani puri" e quindi, in quest'ottica, migliori geneticamente, ma essi venivano considerati solo una parte del totale), molti zingari subirono, infatti, delle persecuzioni da parte di un ramo del nazismo, quello tedesco capeggiato da Himmler: in realtà fu a lui, e non ad un intervento diretto di Hitler (il quale con un proclama li aveva dichiarati discendenti diretti, e quindi puri, della razza ariana, e non si era in seguito occupato della questione…al riguardo si possono consultare diversi studi, ad esempio l'articolo "I misteriosi Zingari", di Carlo Malerba, pubblicato su La Repubblica del 4 gennaio 2003) che si debbono, ai danni degli zingari, diverse misure di deportazioni, sterilizzazioni, uccisioni di prigionieri (se ne ricorda in particolare una, dell'agosto del 1944, durante la quale furono soppresse circa 2500 persone, dopo una rivolta), esperimenti "medici" criminali, oltre che ad alcuni elementi alleati: ciò vale per diversi esponenti ustascia croati, oltre che per alcuni elementi locali in Ungheria ed in Belgio. Gli storici azzardano cifre diverse sui morti di questa fase storica: secondo la maggioranza, comunque, furono purtroppo circa 400.000 gli zingari morti per diverse cause (soprattutto esecuzioni, epidemie e stenti) nei campi di concentramento nazisti. Le autorità italiane nazifasciste non emisero invece provvedimenti specifici contro gli zingari, anche se diversi di loro in quel periodo furono trasferiti al confino (e, nello specifico, in Sardegna): questo, comunque, per reati comuni che gli venivano attribuiti, non diversamente che per quanto avvenuto nei confronti di diversi italiani. Di questa realtà storica, nel libro di Milena Magnani, c'è un'eco nella storia del nonno del protagonista: quest'ultimo, poi, riesce comunque a fare rifiorire la bellezza di certe antiche tradizioni in quel campo di zingari di oggi. A rendere suggestiva l'atmosfera del romanzo contribuiscono anche i toni un po' "rarefatti" ed evocativi, su una comunità umana confinata in un mondo di "anonime periferie", dove pure, però, sono presenti in nuce e possono sbocciare maggiormente sentimenti di speranza, amore, e di rinascita morale. Alla fine del libro l'intreccio risulta organico, dando il senso di diversi passaggi precedenti; significativa anche l'idea di introdurre frasi in diverse lingue, oltre che in un italiano approssimativo, di chi lo parlasse da straniero, che possono rendere più familiari a chi legga le atmosfere narrate, in quanto possono richiamare facilmente alla mente i suoni che capita di ascoltare e che rimangono impressi incontrando i nomadi… Su questi temi presenti nel volume, oltre che su questo mondo da lei conosciuto profondamente anche personalmente, si esprime così, nell'intervista che segue, la stessa Milena Magnani.
1) Nel suo romanzo "Il circo capovolto", pubblicato quest'anno con la casa editrice Feltrinelli, lei narra una storia di artisti di un circo zingaro del passato, che si rinnova nei nostri giorni: una storia di guerra e prigionia, per il passato, e di emarginazione riguardo il presente, in un campo rom situato in una anonima periferia di una grande città italiana, che potrebbe essere una qualunque grande città dell'Italia… Non mancano inoltre, nella sua opera, spiragli di luce fatti di amore e di speranza di recupero di certe tradizioni di quei nomadi… Volevo così chiederle se, al di là dello sfondo storico del romanzo, si fosse ispirata a qualche realtà ed avvenimento da lei personalmente incontrato per la stesura di questo suo libro: penso pure, in effetti, alla sua esperienza ventennale nel campo pedagogico e della solidarietà…
Sì, nel pensare il romanzo mi sono ispirata al materiale che ho raccolto in anni di ricerche. Si tratta di ricerche che ho svolto quasi sempre in modo piuttosto informale cercando di avvicinare a titolo personale le famiglie di spettacolo viaggiante che incontravo e facendo delle lunghe chiacchierate con loro, così come con i sinti che vivevano nei campi attrezzati di Bologna e dintorni e che quasi sempre vengono da tradizioni di giostre o circensi.
E' stato un tentativo non facile di affacciarmi in un mondo per me sconosciuto, e l'ho fatto prima timidamente, poi ho preso coraggio ed è stato più facile.
Il primo scoglio che ho incontrato è stato quello linguistico, perchè nel momento delle mie ricerche, era già in atto un immigrazione su larga scala, era più o meno il 98 e c'era appena stata la guerra nella ex-Jugoslavia ed era poi cominciata la guerra in Kossovo, e poi si stava avviando anche l'immigrazione dai Paesi dell'est, Romania, Moldavia, Ucraina, Bulgaria, ecc. Insomma mi sono trovata di fronte a una babele linguistica e culturale, di fronte alla quale inizialmente mi sono sentita anche un poco disorientata.
Poi però mi sono detta, ci deve essere un modo per non perdersi in mezzo a tutta questa complessità, per tenere le fila di un discorso che non si sfilacci in mille rivoli e in mille desolazioni. E così mi sono ispirata alle figure che considero eroi della nostra epoca, come Miolud Oukili il clown di Bucarest, persone che si sono calate senza pregiudizi nel disagio e nel degrado di certi ambienti e hanno provato a restituire uno strumento di riscatto a chi viveva li', dall'interno. Ho fatto l'esempio di Miolud Oukili ma ci sono tanti altri educatori di strada e operatori di circo sociale che stanno tentando di offrire strumenti di dignità sociale ai ragazzi delle nostre periferie.
L'Italia è piena di figure straordinarie che lavorano nell'ombra senza raggiungere mai gli onori della cronaca.
Ho pensato così che fosse giusto tenere fermo come sfondo lo scenario di degrado che avevo conosciuto e provare a dare al mio personaggio una volontà di reazione, la ricerca di una speranza. In questo senso il circo offre una potenzialità davvero straordinaria, consente di aderire al bisogno di fisicità dei bambini, e di restituire una fierezza al corpo che si esibisce, il riconoscimento dell'applauso, il senso di essere all'interno di un percorso.
2) C'è un messaggio particolarmente più sentito di altri che ha voluto inviare con Il circo capovolto?
Ci sono due messaggi che mi preme in questa sede sottolineare. Il primo riguarda il mondo interculturale in cui viviamo oggi. Come avrai notato nel romanzo sono presenti gli idiomi di cinque lingue, albanese, rumeno, ceko, ungherese e romanes [la lingua originaria degli zingari, abituati però ad interagire anche con altre lingue, appunto, n.d.R.], e non sono presentati con traduzione a fondo pagina. La scelta di non mettere la traduzione è stata dettata da un messaggio che intendevo dare e che è il seguente: non dobbiamo pretendere di capire tutto dell'altro, di assimilarlo al nostro modo di parlare e di essere, per sentirci tranquilli. Basta assestarsi sul terreno di una comprensione di fondo, che è già sufficiente. Se c'è la volontà di intendersi questa vince anche al di là delle differenze linguistiche, ed è proprio questa mia esperienza personale che vorrei trasmettere anche al lettore, il quale pur non avendo la traduzione di alcune parole straniere, è messo nella condizione di capire comunque lo svilupparsi di una trama.
L'altro messaggio riguarda la speranza, una speranza che persiste anche in situazioni di degrado e di scenari non sempre limpidi. Credo che si debbano mettere i bambini nella condizione di credere in se stessi, e lo si può fare offrendo loro degli strumenti per sognarsi, per pensarsi in un futuro di senso. E' un dovere che abbiamo tutti, quello di non girare le spalle ma di ascoltare. Dall'ascolto nasce la voglia di allungare una mano. E' sempre così.
3) Pensa che questo suo volume possa realmente incoraggiare tanta parte del mondo zingaro a riprendere maggiormente determinate arti tradizionali, e ad aiutare le persone esterne a questo mondo a conoscere meglio tale popolo?
No, non credo che il mondo dei rom e dei sinti abbia bisogno di un romanzo come il mio per ritrovare la motivazione a certe arti. Purtroppo si tratta di arti che questo popolo ha dovuto abbandonare per necessità, perchè sono arti che non riescono più a competere con le leggi feroci del mercato dello spettacolo. Conosco tanti circensi che per farcela si sono dovuti riciclare in forme di spettacolo più povere come rettilari o acquari, e che vivono portando in giro queste teche.
Forse uno degli obiettivi che si pone il romanzo è quello da far conoscere a chi non è rom la storia di questo popolo e il declino doloroso delle loro tradizioni.
Non parlo solo della tradizione circense, mi riferisco a tutte le arti di tradizione rom e sinta, penso ad esempio a tutta l'immigrazione rumena che tanto ha messo in crisi qui a Bologna la giunta Cofferati. Si tratta di un'immigrazione che è quasi tutta rappresentata da rom caramidai, che a Krajova facevano di tradizione i mattoni di terra cotta. Come si può pensare oggi di riproporre l'arte del mattone fatto a mano come spendibile e competitiva?
Penso che si possa incoraggiare il recupero di queste arti come fatto culturale e come memoria storica ma non certo come processo commerciale. In questo senso credo anche che la memoria sia importante, che sia il filo rosso che ci lega ad un senso, senza il quale il nostro presente risulterebbe sospeso nel vuoto.
Per questo ho dato al protagonista del romanzo questo ruolo di narratore, lui cerca di raccontare la storia della sua famiglia ai bambini e mentre lo fa rimette in ordine i tasselli di se stesso, attraversa con la memoria vicende tragiche come l'olocausto rom, il così detto, porrajmos, e arriva a questo presente dove i bambini giocano tra le baracche nell'acqua delle pozzanghere.
4) Questo suo lavoro letterario sta venendo presentato in varie città italiane, anche con il contributo di diversi esponenti del mondo della cultura: penso, ad esempio, all'accompagnamento musicale di David Sarnelli alla lettura di alcuni passi del suo libro da parte di Andrea Lupo, a diverse segnalazioni del suo testo nella rete Internet, e così via… Le chiedo, quindi, se il libro stia incontrando, a suo parere, i riscontri che si aspettava, e quali siano stati i più significativi…
Sì il libro per ora mi sta regalando tante soddisfazioni, al di là delle recensioni, che ho apprezzato, mi arrivano tanti messaggi di gradimento anche da parte di persone che lavorano nell'ambito educativo e nei progetti di strada e che hanno a che fare con la realtà dei campi nomadi e dei migranti.
Sono i riscontri più importanti per me, perchè quando si scrive si ha il timore di risultare troppo lontani dalla realtà di chi non fa letteratura e si sporca invece le mani con la realtà tutti i giorni, per questo quando i riscontri arrivano da lì, da quegli ambienti, mi sento rassicurata.
Mi piace pensare a un modo di fare letteratura che sia vicino alla vita vera, che parli la lingua della strada, che dia voce ha chi ha voce troppo flebile.
5) Lei è autrice anche di altri due romanzi: "L'albero senza radici", edito da Nuova Eri nel 1993, e "Delle volte il vento", pubblicato con la casa editrice Vallecchi nel 1996: è possibile indicare degli importanti punti in comune che facciano da filo conduttore che accomuni queste sue tre opere letterarie?
Credo che il filo conduttore di questi tre lavori sia uno sguardo privilegiato verso la categoria del disagio della marginalità. Dipende certo dal mestiere che faccio come educatrice, e che mi porta spesso ad incontrare persone che si misurano quotidianamente con il dolore e la fatica di vivere. E' il caso del primo romanzo, L'albero senza radici, che avevo scritto per testimoniare una certa realtà del disagio giovanile e della tossicodipendenza. Lo scrissi nel periodo in cui lavoravo come educatrice in una comunità terapeutica, e volevo tentare di unire le mie impressioni emotive a un certo tipo di percorsi e di studi sociologici che stavo facendo all'università.
Il secondo invece è ambientato in Salento, una terra che adoro come se fosse sempre stata la mia patria, l'ho scritto nel periodo degli sbarchi dei primi profughi albanesi e cercava di parlare proprio di questo esodo improvviso che sembrava destabilizzare le nostre prospettive di sicurezza.
Comunque in generale è il tema dello sconfinare che mi sta a cuore. Le realtà che si giocano sul filo di un limite, oltre il quale la società intorno può rivelarsi ostile. L'ho scritto anche nel mio blog sul sito Feltrinelli: ancora si continuano a stabilire linee di confine. E senza fare nulla perchè capiti ci si trova collocati di qua o di là da una recinzione. Però io dico che si può provare a camminare sopra la recinzione, calpestandone il filo spinato, in un eterno sconfinamento.