Il dualismo di Roosvelt
Roma. Franklin D. Roosevelt, come capo supremo in guerra, fu una persona, nel suo intimo, profondamente divisa: da una parte emergeva l’uomo dei principi, degli ideali, della fede, il crociato di una nuova visione del mondo proiettata nel lontano futuro; dall’altra, quello della Realpolitik, della prudenza, dei fini limitati, raggiungibili a breve scadenza, sempre intento a difendere il proprio potere e la propria autorità, in un mondo dagli umori mutevoli e dalla fortuna capricciosa. Questo dualismo dilaniò non solo Roosevelt, ma anche i suoi consiglieri. Questo dualismo divise il popolo americano, che oscillava tra le tendenze evangeliche dell’idealismo, del sentimentalismo e dell’utopismo di un’età e le tradizioni più lontane di un’altra, tradizioni di salvaguardia nazionale, di protezionismo e di prudenza. Ora, questo contrasto tra il profeta e il Principe non era netto e deciso; nella complessità della mente e del cuore di Roosevelt o nell’ideologia confusa e nella politica mutevole degli americani nulla poteva essere netto e preciso, né, d’altronde, questa dicotomia interiore fu l’unica chiave per comprendere la leadership rooseveltiana in guerra.
Franklin Delano Roosevelt, nacque a New York nel 1882. Minorato dalla poliomelite nell’uso degli arti inferiori, fu il 32° Presidente degli Stati Uniti, lo fu per quattro mandati consecutivi, l’unico nella storia, dal 1933 al 1945, anno della sua morte. Per sintetizzare al massimo il profilo gigantesco di questo uomo politico, è necessario evidenziare i temi principali del suo percorso presidenziale che furono, soprattutto, quelli posti alla base del suo comportamento di fronte al conflitto mondiale. Ed uno di questi fu l’origine della guerra fredda. Anche se le cause prime dell’ostilità post-bellica fra Russia e Occidente naturalmente furono molteplici e avevano radici profonde nella storia russa, europea e americana, la svolta decisiva verso la guerra fredda si ebbe durante il conflitto mondiale, proprio quando i rapporti fra gli anglo-americani e i sovietici erano, almeno in superficie, quasi euforici. Altro tema, la trasformazione dell’istituto presidenziale. Durante la Seconda Guerra Mondiale e la terza presidenza Roosevelt, piuttosto che negli anni precedenti del New Deal, furono gettate le basi del moderno governo presidenziale. I tribunali appoggiarono la limitazione, ad opera del Capo dello Stato e del Governo, delle libertà civili di stampo etnico, come quelle a carico degli americani di origine giapponese. Il Congresso si dimostrò arcigno e suscettibile nelle questioni minori e acquiescente in quelle importanti. Sotto la pressione della guerra, il complesso dei collaboratori del Presidente proliferò. La “stampa presidenziale” svolse un compito più vasto. La burocrazia subì un processo di riorganizzazione, in funzione di quanto stava accadendo. E poi, il mutamento della società americana. I conflitti armati sono sempre stati la serra dei cambiamenti sociali. E il secondo conflitto incise nel profondo del sistema di vita. Il vasto spostamento di bianchi e di neri, lo svilupparsi di una nuova cultura bellica, in patria e oltremare, la creazione di nuove e micidiali industrie militari – quelle atomiche e quelle elettroniche – insomma, questi ed altri sviluppi misero in moto autentiche rivoluzioni nelle pieghe della società statunitense.
Ma è necessario ritornare al conflitto implicito nella strategia di Franklin D. Roosevelt, negli stati d’animo e nei comportamenti del popolo americano, perché fu lui ad informare di sé tutta la problematica minore della guerra. Proprio perché Roosevelt agiva come un soldato, intento a conquistare la vittoria militare per il suo paese, al minimo costo di vite umane e, come ideologo, proteso ad ottenere per la popolazione mondiale le “Quattro Libertà”, la sua grandiosa strategia fu incrinata da contraddizioni destinate ad avvelenare i rapporti degli Stati Uniti con la Russia e con l’Asia. Proprio perché, almeno in parte, egli diresse la Sala Ovale come un’agenzia personale, i capi dell’esecutivo che gli succedettero si trovarono a dover affrontare l’acuto problema del modo con cui la Casa Bianca avrebbe potuto padroneggiare i giganti della burocrazia, fioriti sulle rive del Potomac. E, poiché, anche se solo in parte, durante la guerra l’autorità federale non potè, specie nei confronti di problemi come quello dei rapporti razziali, convogliare le rapide correnti sociali ed economiche, che il conflitto sembrò scatenare ed equilibrare, con settori cruciali della vita americana, esse si sottrassero poi al controllo.
Quanto detto non tende a sminuire la statura dell’uomo Roosevelt. Egli raccolse la bandiera lasciata cadere da Woodrow Wilson, creò nuovi simboli e nuovi programmi per realizzare antichi ideali di pace e di democrazia, vinse i suoi nemici con la spada e con la penna e morì nell’ultimo stremante sforzo di costruire una “cittadella mondiale della libertà”. La sua figura merita una rinnovata attenzione, soprattutto in periodi difficili come quello di oggi, da parte di coloro che chiedono che popoli e nazioni fondino i loro rapporti su ideali di giustizia e di fiducia.
Se ne andò senza aver potuto godere del giorno della vittoria e vedere quello della nascita delle Nazioni Unite, al cui progetto aveva dedicato le sue ultime energie. Di lui si può comunque affermare che, in quegli anni decisivi, fu in tutti i sensi un “soldato della libertà”.