Il “prima” del Duce

(Seconda parte) – La sua prima comparsa sulla scena nazionale fu all’XI Congresso Socialista di Milano, nell’ottobre 1910: quello in cui Leonida Bissolati lanciò la frase, famosa e vuota, sul partito “ramo secco”. Le decisioni del congresso furono riformistiche nel senso turatiano e suscitarono una forte ilarità in Benito Mussolini, ilarità che manifestò con violento discorso, declamato a scatti, invitante a fare sul serio la rivoluzione. Il congresso votò a favore un ordine del giorno sull’incompatibilità della massoneria, ma scartò l’altro tema, per lui più fondamentale, quello dell’antimilitarismo. Tornato a Forlì, dichiarò che avrebbe continuato per conto proprio, con l’aiuto degli antimilitaristi francesi, la lotta “intesa a demolire l’Esercito”. Circa un anno dopo, lo sciopero generale di protesta, previsto per il 27 settembre 1911, contro la guerra in tripolitania, venne, da lui, anticipato di un giorno – rincalzato dal segretario della Camera del Lavoro Repubblicana, il giovanissimo Pietro Nenni (1891) – e trasformato in una vera e propria prova generale rivoluzionaria: barricate, scontri con la forza pubblica in città, blocco della folla alla stazione ferroviaria, rotaie ostruite con pali per impedire la partenza dei richiamati alle armi e fili telegrafici tagliati per chilometri. Arrestato e processato, Mussolini si difese “avvocatescamente”, sostenendo che la sua opposizione alla guerra era dettata da un forte amor patrio. La condanna a un anno di carcere fu ridotta, in appello, a cinque mesi. Appena uscito di prigione e tornato alla direzione del giornale “Lotta di classe”, riprese su questo e su “La Folla”, dell’anarchico Paolo Valera, la propaganda contro la guerra di Libia e, più specificatamente, contro i socialisti e i sindacalisti favorevoli all’impresa. Nuova ragione di assalto alle posizioni del riformismo socialista trovò nella campagna contro Bissolati, Bonomi e Cabrini, tre eminenze dell’Estrema Destra socialista, per essersi recati al Quirinale, il 14 marzo 1912, in corpo con tutta la Camera, a rendere omaggio al Re, dopo il fallito attentato compiuto nei suoi confronti a Roma, in quello stesso giorno, dall’anarchico Antonio D’Alba. Della richiesta di condanna per i tre, si costruì una piattaforma di agitazione e di elevazione personale; e al XIII Congresso Socialista Nazionale di Reggio Emilia, nel luglio 1912, ottenne la loro espulsione, con una sua personale delibera (ne seguì uno scisma e la formazione del nuovo Partito Socialista Riformista). Per l’indirizzo generale del partito, trionfò l’ordine del giorno rivoluzionario Lerda (Giovanni Lerda, dimissionario dopo l’approvazione della messa al bando della massoneria, di cui faceva parte, rifiutò l’incarico di direttore dall’”Avanti!”): Mussolini entrò trionfalmente nella nuova direzione e, alla fine dell’anno, assunse la guida dell’”Avanti!”. Si traferì a Milano. Era finalmente arrivato ad un posto di comando. Fu direttore-padrone (era solito dire): mise fuori, dopo poco tempo, il redattore capo Angelica Balabanoff, troncò la collaborazione di Claudio Treves e volle che il suo pensiero, l’unico, si leggesse sul giornale, contro il Parlamento e contro ogni forma di collaborazione.
Nelle elezioni politiche dell’ottobre 1913, si presentò candidato a Forlì, facendo boicottaggio contro la nuova guerra libica, le colonie e, ancora una volta, contro il militarismo. Fu una netta sconfitta; riuscì, invece poco dopo, nelle elezioni amministrative di Milano, che dettero ai socialisti Palazzo Marino, grazie anche ad una serrata propaganda condotta sulla sua testata. Proseguì, più che mai, nel suo rivoluzionarismo, fiancheggiando e stimolando il raddoppiato gruppo socialista alla Camera che, alla ripresa parlamentare, assunse atteggiamenti ostruzionistici.
La Settimana Rossa, nei primi giorni del 1914 – a Giolitti era subentrato Salandra – fu una prefigurazione della fortuna fondamentale di Mussolini: sfruttare forze e capeggiare imprese non suscitate da lui. I moti sorsero nelle Marche e in Romagna occasionalmente e, del tutto, indipendentemente dal direttore dell’”Avanti!”. Ebbero carattere repubblicano-anarchico, molto più che socialista. Egli vi si gettò dentro lo stesso, alimentando, sul giornale e in piazza, le dimostrazioni di solidarietà e di rivolta. Allo scoppio della Grande Guerra, il socialismo ufficiale italiano rimase fedele alla concezione ortodossa, con Mussolini in prima linea. Egli stesso redasse il manifesto per un “referendum” contro la belligeranza. Ma poi ai primi di ottobre del 1914, incominciò a dare segni di esitazione. Il 13 di quel mese, pubblicò un articolo intitolato “Dalla neutralità assoluta alla neutralità attiva e operante”, in cui auspicava un intervento italiano, condotto e articolato unicamente dal Partito. Ad una riunione dei vertici, a Bologna, il 20 ottobre, propose un ordine del giorno che riservava al partito stesso, la libertà di decisione in relazione agli sviluppi del conflitto. Rimase isolato e dette le dimissioni da direttore dell’”Avanti!”. “Voi non mi perderete, perchè sono e sarò sempre socialista. Invano urlerete, perchè la guerra ci prenderà tutti”, disse allontanandosi.
Il cambiamento di Mussolini, anche per la gente comune, fu così improvviso e così in contrasto con le idee avute fino ad allora, che venne tacciato perfino di tradimento, di un “tradimento pagato”; si sparse la voce che fosse stato l’oro francese a determinare la sua metamorfosi. E se guerra doveva essere, lui voleva esserci dentro e non fuori, dalla testa e non dalla coda. In realtà, già da tempo aveva iniziato a tessere dei contatti con Filippo Naldi, direttore del quotidiano interventista “Il Resto del Carlino”, che gli spianò la strada per la fondazione del “Popolo d’Italia”. Probabilmente Naldi, persuaso che al conflitto ci si sarebbe comunque arrivati, voleva agire per associare alla guerra stessa la monarchia e Giolitti, i suoi pilastri. Per il tramite di Naldi, arrivarono i primi fondi a Mussolini. Non si trattò di un cambiamento fulmineo, quindi, bensì di una decisione maturata gradualmente nel tempo. In definitiva, considerare il passaggio di Benito Mussolini dal neutralismo, come un puro fatto di lucro e di corruzione, sarebbe errato. Il fattore decisivo va cercato nella sua passione per l’azione e per il comando.
Su quello che, a conclusione degli eventi bellici, accadde poi nel nostro paese e sul come, da una guerra ancorchè “falsamente vittoriosa”, potè scaturire una rivoluzione e uno stravolgimento tanto determinante per il successivo ventennio italiano, è altra storia.

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